Quasi 5 milioni di persone in povertà assoluta e quasi 10 in povertà relativa: che dire di fronte a cifre come queste?
“Siamo di fronte a uno dei momenti più difficili da qualche decennio a questa parte e la durata della stagnazione economica non può non preoccupare. Nonostante la notoria capacità delle famiglie italiane di resistere alla crisi, attraverso la riduzione dei consumi, lo scambio di servizi, l’assistenza reciproca, il perdurare della crisi sta provocando un effetto che si rivela molto più pesante presso le persone e le famiglie meno abbienti”.
Siccome da noi si parla tanto di “sommerso”, dobbiamo pensare che le cifre ufficiali in realtà non siano del tutto credibili e che il lavoro nero sostenga comunque le fasce più deboli?
“Queste cifre elaborate dall’Istat derivano da metodologie consolidate. Ci può essere qualche piccola variazione, ma il fenomeno messo in luce dai dati è che siamo di fronte a una povertà monetaria e del resto questo tipo di indagini sono sulla capacità di spesa, non sui redditi. Quindi i livelli emersi sono legati alla capacità o incapacità di far fronte a eventi con denari che si hanno o non si hanno, indipendentemente che tali risorse finanziarie derivino da lavoro regolare o informale”.
Cosa può fare lo Stato? C’è qualche spazio residuo per il welfare?
“Lo Stato deve rendersi conto che la crisi non è uguale per tutti e colpisce fasce diverse di popolazione. In tutte le decisioni di politica economica va tenuto conto dell’effetto distributivo sulla popolazione. La gran parte di questi poveri, ad esempio, non sono proprietari di casa ma affittuari, dunque togliere l’Imu interviene su altre fasce di popolazione. In questo caso si fa pagare ai più poveri un beneficio di cui godono altri. Se si facesse un ‘buono affitti’, invece, sarebbe una misura adatta per questa fascia di popolazione più povera”.
Cosa possono fare le aziende? Assumere a stipendi bassi, ma assumere? Oppure tenere tutto fermo come stanno facendo ora, in attesa di tempi migliori?
“Dovrebbero fare una cosa difficile: man mano che si manifesta una congiuntura appena migliore, dovrebbero trasformarla in nuovi posti di lavoro. È la cosa più difficile da fare perché sappiamo che, anche quando l’economia riprende, l’occupazione si mette in moto sempre più in ritardo. L’ideale sarebbe quindi anticipare tali assunzioni”.
Cosa può fare il sindacato? Continuare a tenere duro sui contratti oppure favorire una certa deregulation così che le persone finalmente lavorino?
“Non mi pare un tema centrale in Italia. Non siamo più alla situazione di 10 anni fa, oggi ci sono contratti differenziati. Si potrebbero fare piccoli ritocchi, intervenire sui tempi tra un contratto a tempo determinato e l’altro. Oggi non si crea lavoro perché non c’è domanda”.
C’è una soluzione teorica da parte degli economisti? O anche la vostra categoria brancola nel buio?
“Mi pare che l’Europa stia dimenticando la lezione che noi facciamo agli studenti al primo anno: e cioè che quando siamo in fase ciclica di bassa domanda, come abbiamo imparato dagli anni Venti del secolo scorso, deve intervenire qualcuno immettendo spesa nell’economia. Altrimenti, come Keynes aveva insegnato, l’economia stessa rimane intrappolata in una fase di stagnazione. Se la situazione è questa, occorrono quindi interventi di politica economica che stimolino la domanda, altrimenti la recessione rimane. Ciò ha tuttavia più a che fare con regole europee che con quelle nazionali”.