Un’originale proposta politica ed economica di ispirazione cattolica per il futuro del Paese dopo il ventennio fascista e la tragedia bellica; un “metodo di lavoro” che, pur segnato dal tempo, potrebbe avere ancora molto da dire all’Italia del terzo millennio. Cadono oggi i 70 anni del Codice di Camaldoli: a Roma, presso la Camera dei Deputati, è previsto un convegno promosso da Acli, Fuci, Associazione dei partigiani cristiani e Istituto Sturzo, con una relazione introduttiva di Paolo Acanfora, 39 anni, storico contemporaneista dell’Università Lumsa, formatosi alla Sapienza di Roma e alla Orientale di Napoli, autore fra l’altro di un recente volume su Aldo Moro (“Un nuovo umanesimo cristiano”), mentre è di prossima pubblicazione un libro sulla politica estera degasperiana.
Professor Acanfora, in quale contesto nasce il Codice di Camaldoli e quali ne furono gli autori?
“Il codice nasce da un’iniziativa di un gruppo di intellettuali cattolici con l’intento di offrire una più compiuta e moderna elaborazione dei principi fondamentali della dottrina sociale cristiana. Un’idea che si concretizza in un convegno a Camaldoli, in provincia di Arezzo, dal 18 al 24 luglio 1943. Da questo convegno, svolto tra i drammatici eventi della seconda guerra mondiale e all’immediata vigilia di cruciali cambiamenti (il 25 luglio cadrà il governo Mussolini), comincerà una lunga e difficile fase di elaborazione che si concluderà solo nell’aprile del 1945”.
Quali sono i temi principali affrontati dal documento?
“Direi che, oltre a temi tradizionali quali la famiglia o l’educazione, gli elementi di novità del codice sono le riflessioni sullo Stato (un passo importante verso il superamento dell’horror statualis, fino ad allora assai radicato nella cultura cattolica), sull’attività economica, privata e pubblica, sulla fondamentale importanza del mondo del lavoro”.
Vi emerge un contributo specifico del cattolicesimo impegnato di quel tempo?
“Certamente sì. È dagli ambienti dei Laureati cattolici e dell’Icas – Istituto cattolico di attività sociale – che matura questa esigenza. E a portarla a compimento contribuiranno numerose personalità di notevole profilo intellettuale e tecnico, da Capograssi a Saraceno, da Vanoni a La Pira. Ma il ruolo cruciale in termini di sistemazione del materiale è senz’altro di Sergio Paronetto. Aggiungerei il contributo di mons. Adriano Bernareggi, assistente ecclesiastico dei Laureati di Azione cattolica e di quei giovani che svolgeranno un ruolo politico determinante nell’Italia postfascista, come Andreotti, Moro, Taviani”.
Quale l’eventuale “applicazione” o seguito del Codice di Camaldoli?
“È sempre difficile fare un bilancio di questo tipo. Il codice non voleva essere una piattaforma programmatica per un partito dei cattolici. Anzi, su questo piano sono chiare le posizioni dei curatori: penso soprattutto a Paronetto. Il codice non forniva indicazioni di carattere politico ma rappresentava un punto di riferimento per i cattolici impegnati sul piano sociale e civile. Naturalmente, anche su quello politico ma in un’ottica pluralista. Il che implicava il riconoscimento di un’autonomia nella traduzione in chiave politica di quegli enunciati. Ciò detto, molte di quelle sollecitazioni si ripresentarono in sede costituente, consentendo l’incontro con forze politiche di matrice radicalmente diversa”.
Cattolici e politica oggi: Camaldoli ha ancora qualcosa da insegnare?
“Da storico sono sempre cauto nell’attualizzazione di opere o figure che appartengono ad altri contesti storici. Tuttavia, credo che l’insegnamento più significativo possa essere di carattere metodologico. Camaldoli rappresentò il tentativo di superamento della frattura tra filosofia morale e sapere tecnico. Si partì dalla tesi della necessità di studiare la realtà nei suoi aspetti tecnici e di trovare gli strumenti idonei, e possibili, per operare in essa sulla base dell’ispirazione etica cristiana. Il recupero della categoria di bene comune, la centralità della persona nelle dinamiche sociali, politiche ed economiche in una società dominata da un mercato che si pone come unico e assoluto criterio regolatore, la difesa della mediazione, del dialogo come valore oltreché strumento della vita politica, costituiscono probabilmente il terreno sul quale i cattolici, partendo anche dall’esempio camaldolese, possono portare tutt’oggi il proprio prezioso contributo”.