A ventinove mesi dall’inizio della repressione in Siria sono finalmente riuscita a organizzare il mio primo viaggio nella martoriata terra delle mie origini. Due settimane in cui ho visitato campi profughi e centri di riabilitazione in Turchia e altri campi profughi, centri d’accoglienza e città bombardate all’interno del territorio siriano, tra la periferia di Idlib, la città di Sarmada e la millenaria città di Aleppo, che ha dato i natali ai miei genitori.
Un viaggio che ho fortemente voluto e che sono riuscita a intraprendere come freelance grazie a una rete di contatti che nei lunghi mesi di repressione sono riuscita a instaurare via web con l’interno e grazie all’appoggio di associazioni umanitarie che operano sul territorio. “Non hai pensato ai tuoi figli prima di partire?”, mi hanno chiesto in molti. È proprio pensando a loro che sono partita: ho a cuore il destino dei bambini siriani esattamente come ho a cuore il destino dei miei figli. La vita, la sicurezza, il diritto degli uni è la garanzia della vita, della sicurezza e del diritto degli altri: siamo figli della stessa umanità.
Raccontare e tradurre le notizie delle stragi, dei bombardamenti, delle esecuzioni, dell’assedio, della fuga, delle privazioni, della sofferenza della popolazione civile stando a casa, grazie al lavoro coraggioso dei citizen reporter siriani, che operano come corrispondenti anche nelle zone più impenetrabili, non mi bastava più. Volevo partire per vedere con i miei occhi e provare sulla mia pelle cosa significa tutto questo, per riuscire a raccontare in modo ancora più fedele, puntuale. Ho pensato ai colleghi che in Siria hanno perso la vita, ho pensato alle loro famiglie, ho pensato a Domenico Quirico, alle sue figlie; come giornalista italo-siriana non potevo non partire.
Ho presto constatato di persona che essere giornalisti in Siria significa essere un pericolo per gli altri e per se stessi: il giornalista è un testimone scomodo, un nemico del regime perché racconta al mondo ciò che non si deve far sapere, un elemento sgradito al potere, ed è anche un potenziale pericolo perché trasmette immagini e realtà che potrebbero mettere a rischio le persone ritratte. Ma un giornalista, per la popolazione che subisce in silenzio, è uno strumento importante per far arrivare la loro voce al mondo, una “risorsa per non far morire la verità”. Il fatto di essere bilingue, di parlare la lingua del posto mi ha certamente aiutata a comprendere meglio le situazioni in cui mi sono ritrovata durante le diverse tappe del mio viaggio.
Ho cominciato con alcuni incontri a Reihanly, una città del profondo Sud della Turchia, che confina con la Siria. Lì ho visitato centri di riabilitazione per uomini e donne siriani feriti dalle bombe o dai cecchini. Alcuni sono completamente paralizzati e sono in attesa di delicati interventi chirurgici; altri hanno bisogno di protesi, anche per più arti. Il più giovane che ho intervistato ha 16 anni: è completamente immobilizzato in conseguenza delle schegge di un ordigno che gli hanno distrutto la spina dorsale. A Reihanly ci sono numerose famiglie siriane, alcune in affitto, altre ospiti di strutture di accoglienza; ci sono scuole per i profughi e centri dedicati all’accoglienza di bambini orfani. In questa cittadella, i cui abitanti sono prevalentemente agricoltori e autotrasportatori, le conseguenze del conflitto in Siria si sentono profondamente. La gente, ospitale e accogliente nei confronti dei profughi, ha comunque paura, anche in conseguenza delle autobombe fatte esplodere lo scorso maggio. Al ritorno dalla Siria ho visitato il campo profughi di Altinoz, che ospita centinaia di famiglie siriane da oltre due anni.
Il viaggio in Siria è stato un continuo spostamento nel vivo di un dramma che non accenna a risolversi. Ho visitato diversi campi profughi, incontrando le persone che vi abitano e ascoltando le loro drammatiche storie. Sono stata anche in alcuni centri di accoglienza per sfollati: ex scuole, palestre, strutture abbandonate che sono diventate il rifugio di famiglie che hanno dovuto abbandonare le loro case in seguito ai bombardamenti. La situazione che ho riscontrato ad Aleppo è drammatica; la città, una delle più antiche al mondo, i cui reperti storici e la cui architettura testimoniano una storia gloriosa e ricca, è divisa in zone ancora sotto il controllo del regime e zone liberate. Le strade principali sono interrotte da posti di blocco e sui punti più alti della città sono appostati i cecchini. Lo scenario è desolante: ovunque ci sono macerie, le scuole, gli ospedali e i negozi sono chiusi; la gente convive con le esplosioni e gli spari. Tutti, bambini e adulti, mi dicono che il loro terrore più grande sono gli aerei: il loro rumore arriva a rompere i timpani e il loro operato è apocalittico. Aleppo, come le altre città siriane, cerca di sopravvivere; i volontari assistono i più deboli e cercano di riempire quel vuoto lasciato dalle istituzioni, praticamente inesistenti.
La Siria è un Paese in ginocchio, dove tutte le componenti della popolazione, di ogni etnia e religione, stanno subendo una pesante repressione, che ha causato oltre 130mila morti, due milioni di profughi, 8 milioni di sfollati, 250mila persone scomparse. Più di due anni fa le persone che manifestavano contro il regime hanno chiesto l’istituzione di una “no fly zone” e l’apertura di corridoi umanitari. Oggi la comunità internazionale risponde con la prospettiva di un nuovo fronte di bombardamenti. Un’intera generazione di bambini siriani rischia di non conoscere la parola domani.