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In fuga dalla guerra gli armeni di Siria Continua la diaspora

Occorre recarsi nel Caucaso meridionale, tra il Mar Nero e il Mar Caspio, in un piccolo Paese grande quanto la Sicilia, se si vuole conoscere la “culla della cristianità”. Così è stata chiamata l’Armenia, durante una giornata a lei dedicata dalla recente edizione del Meeting di Rimini. Strategica tra l’Est asiatico e l’Ovest mediterraneo, circondata da Turchia, Georgia, Azerbaigian, Iran, dalle enclavi del Nagorno Karabakh e del Nakhchivan, primo Paese al mondo a convertirsi ufficialmente al cristianesimo nel 301 d.C., l’Armenia, che dal 1922 fu la più piccola tra le Repubbliche dell’ex Unione Sovietica, ottenendo l’indipendenza nel 1991, è ancora oggi un mondo a parte, dove vivono tre milioni di persone.

Il genocidio. Gli altri nove milioni di armeni sono sparsi per il mondo, soprattutto in Russia, Stati Uniti, Francia e Italia. Frutto di quella diaspora che seguì al massacro degli armeni, perpetrato dalle autorità ottomane tra il 1915 e il 1921, a causa del quale persero la vita un milione e mezzo di persone. Un genocidio, riconosciuto ufficialmente da 21 Stati, da 43 Stati americani su 50, dalla Commissione Onu per i crimini di guerra, dal Parlamento europeo, ma oggetto di negazionismo da parte della moderna Turchia, che in gran parte proprio per questa ragione si vede respingere la sua richiesta di entrare nell’Unione europea. Anche Papa Francesco, nel giugno scorso, ricevendo in Vaticano, assieme a una folta delegazione, sua beatitudine Nersès Bédros XIX Tarmouni, patriarca di Cilicia degli Armeni, ha affermato: “Il primo genocidio del XX secolo è stato quello degli armeni”. Legate al genocidio, sono altre tre questioni: il riconoscimento da parte della Turchia della linea di confine con l’Armenia – con la chiusura delle frontiere da parte turca – la rivendicazione da parte di quest’ultima sulle regioni orientali confinanti e la questione dell’enclave armena del Nagorno Karabach, ancora oggetto di negoziato dopo la guerra del 1994.

Persecuzione e fuga. Chi sopravvisse allo sterminio, circa un milione di persone, che si rifiutarono di convertirsi al cristianesimo, fuggì. La fuga – insieme alla persecuzione – è il destino che il popolo armeno subisce ancora oggi. Prima degli inizi della guerra civile siriana, gli armeni presenti nel Paese erano circa 100mila. Hanno dovuto lasciare la Siria, insieme ai quasi due milioni di profughi che si sono riversati negli altri Paesi del Medio Oriente e in Turchia. Mèta dei profughi armeno-siriani sono anche le comunità della diaspora presenti in Europa, America, Canada, Australia e soprattutto l’Armenia. Come riferito dall’Agenzia Fides nei mesi scorsi, passaggio obbligato quasi per tutti, in questo percorso, è la Turchia: colonie di armeni provenienti dall’area di Aleppo e Latakia, ma anche dalle città della Mesopotamia (Hassake, Deir Ezzor, Ras El Ein), giungono nelle città turche trasfrontaliere come Antiochia, Sanliurfa, Gaziantep e anche Osmaniye, Kahramanmaras e Adiyaman. Ong e associazioni di armeni nella diaspora, specialmente negli Stati Uniti (“Armenian Relief Network”, “Mission Armenia” e altre) hanno lanciato una campagna di pressione e una raccolta di firme per chiedere al governo turco di “lasciar andare gli armeni”. Come i loro predecessori dell’inizio del secolo scorso, gli armeni siriani sono fuggiti per sopravvivere e per non tradire la loro fede. Come ha affermato al Meeting Joseph Oughourlian, nato in Francia, cofondatore e direttore esecutivo del fondo di investimenti Amber Capital: “Per me come per gli altri armeni l’attaccamento alla Chiesa e al cristianesimo è una questione d’identità, non il lusso di una scelta. Dopo la tragedia del genocidio e della diaspora non abbiamo più niente in comune tra noi se non l’appartenenza al cristianesimo, che è il nostro punto di riferimento e la nostra casa”.

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