Di Marta Fallani
Porre uno di fronte all’altra, colpevole e vittima di reato: dare loro la possibilità, grazie alla funzione evocativa del teatro, d’incontrarsi, di dire uno le ragioni all’altra. Di ascoltarsi. È l’esperimento proposto da “Cicatrici e guarigioni”, lo spettacolo che andrà in scena per otto serate, dal 9 al 18 ottobre (calendario e modalità di partecipazione suwww.teatrosocieta.it) nella Casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino. Otto detenuti incontreranno otto vittime di reati al patrimonio, davanti a una platea: un momento unico per “ricucire lo strappo sociale originato dal reato”, ma anche per pensare a una giustizia di tipo “riparativo” piuttosto che “remunerativo”. “Crediamo che limitarsi a colpire i colpevoli non faccia altro che aprire celle. Parlarsi, tra mondi ostili e separati, può aiutare a fare un passo in più”, ci spiega Claudio Montagna, il regista che ha guidato i protagonisti nel lavoro teatrale. Lo abbiamo intervistato.
Il progetto ricorda più una seduta di psicoterapia che uno spettacolo teatrale…
“Io eviterei di chiamarlo spettacolo perché non lo è, anche se ci sono molti elementi di tipo teatrale che servono da sostegno per favorire l’inserimento in scena dei protagonisti. Si tratta di un incontro tra due mondi che hanno in comune un evento vissuto in maniera diversa dall’uno e dall’altro. La giustizia tende a separare i due mondi, c’è una totale mancanza di conoscenza e un punto in comune, il reato. Ci siamo ispirati alle commissioni per la verità e la riconciliazione del Sudafrica per le vittime di apartheid: il fatto di parlarsi e di dire l’uno all’altro le proprie ragioni, sposta leggermente l’asse dell’intendimento rispettivo. Chiedendo ai detenuti se hanno mai pensato alle loro vittime, qualcuno risponde di no con stupore altri con decisione: ‘Se avessi pensato alla vittima, non avrei compiuto il reato’, dicono. Una ragazza con cui abbiamo parlato, vittima di un furto, ci ha confessato, guardando il ladro, di essersi chiesta se anche lui si sentiva solo come lei. La giustizia non chiude definitivamente il danno, e le vittime non hanno un gran beneficio nel sapere che i colpevoli soffrono, vorrebbero fare un passo in più. Queste serate hanno la funzione di far incontrare i due mondi, senza la pretesa di riconciliazione, ma per dire almeno una volta le proprie ragioni all’altro”.
Come hanno reagito i detenuti a questa proposta?
“Li ha colti un po’ di sorpresa perché supporre un incontro diretto con chi di solito si cerca di non vedere, di evitare, li ha posti in una condizione di profonda revisione. Qualcuno si è sentito molto disturbato. Abbiamo parlato a lungo di questo e adesso che si avvicinano le serate sono in attesa. Si stanno preparando soprattutto a non soccombere all’emozione”.
Questo esperimento sembra voler spostare il problema del recupero dal colpevole alla società tutta…
“Il lavoro è molto orientato sulle vittime e sulla mentalità corrente. La punizione non è la soluzione. Non sta certo a noi esprimere delle valutazioni sul sistema carcerario né offrire soluzioni, non è il nostro mestiere. Vogliamo ragionare sul sentimento dell’insicurezza: crediamo che limitarsi a colpire i colpevoli non faccia altro che aprire celle. Parlarsi, tra mondi ostili e separati, può aiutare a fare un passo in più”.
Nella sua lunga esperienza di lavoro in carcere, cosa crede possa offrire il teatro ai detenuti?
“Offre senz’altro un sollievo. Non illudiamoci che possa servire da trasformazione, perché lavoriamo con persone adulte. È certo, però, che ci sono delle scoperte. Io ho sentito dire da due detenuti, a diversi anni di distanza, ‘se sapevo che c’era il teatro non finivo qui’. Non perché avrebbero fatto l’attore, ma perché avevano scoperto un modo di vivere e delle forme di espressione più gratificanti di quelle che immaginavano percorrendo la strada che hanno percorso. Il teatro è un veicolo di relazioni: i detenuti sono i primi beneficiari, ma noi lavoriamo soprattutto per la città, per creare un ponte tra essa e il quartiere emarginato che è il carcere. È il contrario di ciò che si crede, perché è il carcere che offre o restituisce qualcosa alla città”.
In questo senso, quale crede dovrebbe essere l’atteggiamento dello spettatore?
“L’attenzione verso il teatro in carcere sta crescendo, cresce il pubblico che assiste a questi spettacoli e cambia il loro approccio. A me piacerebbe che lo spettatore non si facesse prendere dall’emozione ma ne parlasse fuori, ragionando con gli altri su quello che l’evento gli ha comunicato. Il carcere dà alla collettività una soddisfazione sterile, la gente che entra si accorge che non basta rinchiudere lì dentro i colpevoli per sentirsi sicuri. La sicurezza è corresponsabilità. Il pubblico di questi eventi non deve emozionarsi, deve uscirvi pensando che non è finita lì, che la loro partecipazione come spettatore ha dato un contributo alla vita sociale e che ci sono altri passi da compiere”.