Alcuni hanno scritto, nella fretta dei necrologi, che è stato un’icona degli anni Cinquanta. Non è vero, non è stato, sia cronologicamente, sia stilisticamente, così lontano da noi; altri hanno detto che il suo nome è legato unicamente al grande successo de “Il mondo”: anche questo non è vero, o se è vero, lo è solo in parte, perché Jimmy Fontana, morto a settantanove anni nella sua casa romana, aveva legato il suo nome (pseudonimo di Enrico Sbriccoli: era nato a Camerino, nelle Marche, nel 1934) ad altri successi tipici del filone melodico italiano dei mitici Sessanta. Non dimentichiamo che in uno dei motivi italiani più eseguiti in tutto il pianeta, Giappone compreso, (proprio come il suo grande hit del 1965, “Il mondo”) è quel “Che sarà”, portato al successo a Sanremo dal gruppo dei Ricchi e Poveri e dal cantante portoricano Josè Feliciano nel 1971, c’è anche la sua firma, oltre a quella di Franco Migliacci e Carlo Pes.
Due successi internazionali, due canzoni che ancora oggi continuano ad avere milioni di esecuzioni in tutto il pianeta, ma non solo: ci sono stati altri motivi interpretati dal cantante marchigiano, strumentista e jazzista in gioventù, che, anche se non sono rimasti nell’immaginario collettivo di un’epoca, hanno però piacevolmente attraversato i Sessanta: “Pensiamoci ogni sera”, ad esempio, o “La mia serenata”, oppure alcune versioni nostrane di successi stranieri, come “Guantanamera”, “La nostra favola” (traduzione del successo del cantante gallese Tom Jones, “Delilah”) o “Per vivere insieme” (cover dell’hit del gruppo statunitense dei Turtles, “Happy together): chilometri e chilometri di mattonelle sono state consumate ballando i lenti che la voce potente, calma ed espressiva di Fontana accompagnava uscendo dai giradischi di plastica.
Jimmy Fontana ha rappresentato una zona necessaria dei Sessanta, funzionale e complementare alle battute più forti e al ritmo più sostenuto degli shake suonati dai Beatles, dai Rolling Stones o dagli Animals. L’altra faccia dei Sessanta era anche questo garbato cantare d’amore non necessariamente sulle nuove note sparate da chitarre elettriche distorte e amplificate oltre i mille watt; non era infatti infrequente la scena di coppie teneramente abbracciate che ballavano un lento sotto la cascata di suoni ghiacci e acidi che avrebbero frantumato un cristallo, e lo stesso Jimi Hendrix suonò dei “lenti”, come si diceva allora, con suoni strappati e volume stratosferico, ascoltate “The wind cries Mary” se non ci credete.
Fontana è stato uno di quelli che avevano tenuto conto delle nuove realtà musicali ma che non avevano cavalcato improvvidamente le mode: una voce forte ma anche calda come la sua non poteva non rimanere sul melodico, ma che melodico: non più quello allusivo o d’imitazione americana dei Cinquanta, ma una tradizione che si rinnovava, che cantava la bellezza del mondo che riusciva anche a consolare di un amore finito (“Il mondo”) celebrava l’amore che chiunque, anche chi non aveva voce, poteva trasformare in una serenata (“La mia serenata”).
Molte parole delle sue canzoni parlarono al posto di timidi ragazzi che non avevano il coraggio di confessare i loro sentimenti e che riuscirono ad esprimerli grazie a quelle garbate dichiarazioni, fatte per interposta persona. Anche questa è stata la magia delle sue canzoni.