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Caso Barilla, in attesa della legge sull’omofobia il manganello mediatico

Di Emanuela Vinai

La sua unica colpa in realtà è un’ingenuità: ha soltanto detto che il suo target non sono gli omosessuali. Il povero Guido Barilla, nella trappola della “Zanzara”, l’ha detto con tale tranquillità da non adombrare alcun sospetto di omofobia o altro. Si parlava di pubblicità, di investimenti, di soldi. E lui ha risposto da imprenditore: in fondo siamo un Paese libero, ci sono tante marche di pasta. Illuso. Le associazioni che difendono i diritti Lgbt non aspettavano altro per sollevare il polverone e montare il caso mediatico. E il fuoco di fila è subito partito, gridando all’omofobo, al rogo, al boicottaggio, con una furia che nemmeno i talebani contro i Buddha.
Non c’è da stare tranquilli. Ancora non è stata approvata la legge sull’omofobia che già esprimere un’opinione è diventato un lusso che non ci si può permettere. Non si tratta, giochiamo a capirci, di stigmatizzare orientamenti sessuali del tutto personali, che tali sono e rimangono, ma di poter dire: io preferisco altro. Oppure la preferenza può essere solo a senso unico? Di che cosa ci si dovrà giustificare ancora? La reazione fuori misura di alcuni quotidiani e del tam tam su internet è un segno dei tempi, ma qui più che combattere una discriminazione, si sconfina nell’intimidazione mediatica.
Barilla non ha vietato niente a nessuno, ha solo detto che per lui il riferimento è un altro. Si dirà che altri imprenditori, più furbi, lo pensano, lo fanno e non lo dicono. Così come la scaltrezza dei concorrenti li ha portati a cavalcare l’onda dell’indignazione per lanciare ammiccamenti a un mercato potenzialmente lucroso. Ma è così grave pensare che nonostante tutto la famiglia tradizionale continui a essere lo zoccolo duro di questo martoriato Paese? Purtroppo non c’è censura peggiore di quella che s’innesca nella spirale perversa del “politicamente corretto”. Certo che esistono gli omofobi e sono persone spregevoli, così come tutti quelli che disprezzano, sbeffeggiano a uccidono i disabili, i neri, gli ebrei, le donne. E non necessariamente in quest’ordine.
Per cui, per fare un esempio molto scorretto, finisce che per colpa dei razzisti veri che invadono di ignoranza gli spalti, poi allo stadio non si possa più fischiare il Balotelli di turno, che quel giorno si rende oggettivamente protagonista di una prestazione mediocre o di comportamento poco sportivo, perché se è nero i fischi sono sicuramente per il colore della sua pelle.
E mentre il premio Nobel già chiede lo spot “riparativo”, attendiamo fiduciosi che, in nome della par condicio e per una fattiva normalizzazione del pensiero unico, parta la campagna per il boicottaggio preventivo di altre prestigiose marche che non inseriscono omosessuali nei loro spot. Se così è, dal canto nostro, ci permettiamo di suggerire un breve e non esaustivo elenco di categorie a tutt’oggi non rappresentate nel luccichio della pubblicità di un aperitivo: disabili che vivono con pienezza la loro vita, mamme che non sembrino le sorelle maggiori dei figli, famiglie con più di due figli e non tutti ariani, ex detenuti reinseriti nel mondo del lavoro, malati in terapia, poveri pieni di dignità.
Ma non ci facciamo troppe illusioni. Del resto sono anni che ci si batte senza risultato per evitare che la donna negli spot sia perennemente seminuda e ammiccante e l’unica cosa che ha saputo dire la Boldrini, già nota per la campagna contro Miss Italia, è stata che non è il caso di continuare a rappresentarla massaia. Lo strabismo è malattia diffusa.

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