Prima l’essere, poi il fare. “Essere catechisti”, non “fare i catechisti”: perché catechista non è “un titolo”, ma “un atteggiamento”. Come? Con “un “movimento di sistole e di diastole”, che parte dalla “creatività” di chi sa “uscire dagli schemi”, ma anche dalla “coerenza” di chi sa spendersi in quella che è “una delle avventure educative più belle”, con la quale “si costruisce la Chiesa”. Papa Francesco tiene, per la prima volta nell’Anno della fede, una catechesi ai catechisti – oltre 1.600 provenienti da 51 nazione dei cinque continenti – e dice subito: “Vale anche per me, anch’io sono un catechista”. E la platea applaude ripetutamente, con un calore festoso, il successore di Pietro, che entra in Aula Paolo VI con grande anticipo rispetto al previsto, spiazzando perfino i fotografi di alcune agenzie internazionali, arrivati alla spicciolata quasi alla fine della catechesi: poco meno di mezz’ora, scandita dallo schema dei “vecchi gesuiti” a cui il Papa ci ha ormai abituato. “Uno, due, tre”, li enumera il Papa e l’empatia con la platea diventa, se possibile, sempre più forte. Ma era palpabile subito, appena Papa Francesco ha fatto il suo ingresso percorrendo tutta l’Aula Paolo VI dal fondo. Come un ordinario “convegnista”, per partecipare, diligente, al congresso internazionale di catechesi organizzato in Vaticano dal Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. Il suo doppio “grazie” ai catechisti, all’inizio – mentre la folla si alza tutta in piedi e grida “Viva il Papa” – e alla fine della catechesi – quando prima di accomiatarsi Papa Francesco trova anche il tempo di indossare il classico “panama” bianco con la fascia nera, scambiandolo con il suo zucchetto – non è di circostanza. Grazie “per quello che fate, ma soprattutto perché ci siete nella Chiesa”.
Prima l’essere. “La Chiesa non cresce per proselitismo. Cresce per attrazione”. Il Papa cita Benedetto XVI, per spiegare che “quello che attrae è la testimonianza”, e che “essere catechista significa dare testimonianza della fede, essere coerente nella propria vita”. “Non è facile”, ha ammesso il Papa, che come suggerimento ha ricordato quello che San Francesco di Assisi diceva ai suoi frati: “Predicate sempre il Vangelo e se fosse necessario anche con le parole”. Ma prima viene la testimonianza: “essere catechisti chiede amore, amore sempre più forte a Cristo, amore al suo popolo santo. E questo amore non si compra nei negozi; non si compra qui a Roma, neppure. Questo amore viene da Cristo”, è un suo “regalo”. Per questo, spiega il Papa dettando il tema della sua catechesi, “noi dobbiamo ripartire da Cristo”.
Sistole e diastole. “Rimanere attaccati” a Gesù, come la vite con i tralci, “avere familiarità” con Lui”, la prima risposta del Papa e la prima consegna ideale ai catechisti. Ma ripartire da Cristo – il punto due – significa anche “imitarlo nell’uscire da sé e andare incontro all’altro”. “Il cuore del catechista – ha detto il Papa – è in un movimento di sistole e diastole: l’amore di sé e l’incontro con gli altri”. Il catechista non prende la percentuale, il catechista è lì, nell’incrocio dei due doni. Papa Francesco non capisce, e lo confessa apertamente ai suoi interlocutori, “come un catechista possa rimanere fermo”. È questo il legame tra il secondo e il terzo punto: ripartire da Cristo significa “non aver paura di andare con Lui nelle periferie”. È la paura che blocca, ma Dio non ha paura: “Se un catechista si lascia prendere dalla paura è un codardo, se sta tranquillo finisce per essere una statua da museo, e ne abbiamo tante oggi!”, il grido d’allarme del Papa. “Quando un cristiano è chiuso si ammala”, ha ricordato. “Preferisco mille volte una Chiesa incidentata e non una Chiesa ammalata”, ha ribadito tra gli applausi.
Oltre gli schemi, come Giona. Una storia che “ci insegna a non aver paura di uscire dai nostri schemi per seguire Dio, perché Dio va sempre oltre”. Per spiegare cosa significhi “non aver paura di andare con Lui nelle periferie”, il Papa ha usato la storia di Giona, “una parabola molto istruttiva nei nostri tempi di cambiamenti e di incertezza”. Giona è un uomo pio, con una vita tranquilla e ordinata, un uomo che con “i suoi schemi ben chiari” giudica “tutto e tutti”, ma in modo rigido. Per questo quando il Signore lo chiama e gli dice di andare a predicare a Ninive, “la grande città pagana”, Giona non se la sente: lui ha già “tutta la verità”, Ninive “è al di fuori dei suoi schemi, è alla periferia del suo mondo”. “Rileggere il Libro di Giona”, per il Papa, “ci insegna a non aver paura di uscire dai nostri schemi per seguire Dio, perché Dio è sempre “oltre i nostri schemi”, “non ha paura delle periferie”, è “sempre fedele”, è “creativo”. “Se voi andate alle periferie, lo troverete lì”, la pista suggerita del Papa, secondo il quale “non si capisce un catechista che non sia creativo”. “Quando noi pensiamo di andare lontano, in una estrema periferia, e forse abbiamo un po’ di timore, in realtà Lui è già là: Gesù ci aspetta nel cuore di quel fratello, nella sua carne ferita, nella sua vita oppressa, nella sua anima senza fede”. Poi una confidenza sulla “diocesi che avevo prima”, Buenos Aires: “Una delle periferie che mi fa male tanto è quella dei bambini che non sanno farsi il Segno della Croce”. È lì che bisogna andare, perché i catechisti devono avere “l’audacia di tracciare strade nuove”.