Dopo le bombe, i rapimenti, i traumi e la distruzione, il grande dramma dei cristiani in fuga dalla Siria è trovare un luogo sicuro dove andare, in Europa o in America. Pur sapendo, ineluttabilmente, di non poter più tornare. È il tratto comune che emerge dai racconti di alcuni tra i 10mila cristiani siriani arrivati in Giordania dall’inizio del conflitto, oggi assistiti dalla Caritas e dalle parrocchie locali. La maggior parte appartiene al ceto medio ed è riuscita a fuggire per vie legali. Ma anche se finora le minoranze in Siria sono state abbastanza tutelate, i cristiani, che sono il 6% della popolazione siriana, si trovano comunque tra l’incudine e il martello e soffrono come tutti i loro connazionali. I cristiani, in particolare, sono oggetto di rapimento a scopo di riscatto o di furti, estorsioni e saccheggi. Al punto tale che quando decidono di fuggire sanno dentro di sé che molto probabilmente non rivedranno più la loro amata terra. Venerdì, giorno festivo nei Paesi musulmani, per la prima volta la parrocchia di rito melchita, guidata da un prete sposato che ogni tanto porta in braccio il suo bambino, ha organizzato una celebrazione e una festa per una settantina di famiglie siriane, per metterli in contatto con l’efficiente team di Caritas Giordania che li aiuta, fornendo cibo e prodotti per l’igiene. E anche se dopo la lunga messa si pranza con dell’ottimo riso con mandorle e carne – un piatto tipico giordano -, e poi si balla con musiche siriane, sono tutte storie molto dolorose.
Il pianto delle donne. Pironia, 52 anni, è vedova e sola. Ha cinque figli adulti sparsi tra la Siria e l’Europa. Viene da un villaggio al confine con la Turchia, dove cadevano le bombe e rapivano i cristiani chiedendo riscatti altissimi. Da due mesi vive ad Amman presso alcuni parenti. Uno dei figli, costretto a fare il militare, ha disertato dopo essere stato ferito in guerra ed aver visto tanti morti e atrocità. Ora è in Germania. Un’altra figlia è in Svezia, si è affidata ai trafficanti passando per la Turchia e la Grecia. La famiglia le ha pagato il viaggio, che costa tra i 10mila e i 30mila dollari. Pironia ha davanti a sé poco futuro ma tanto dolore e solitudine. Vorrebbe raggiungere qualcuno dei figli ma non ha più soldi. Dopo lo sfogo i suoi occhi verdi, già tanto provati, esplodono in mille lacrime. Il dolce viso incorniciato da capelli neri si gonfia e diventa rosso. Con la mano tocca la catenina con la croce al collo e dondola morbidamente i piedi gonfi, cercando di calmarsi. È un pianto dirompente, disperato. Impossibile non condividerlo.
Una famiglia ferita dai rapimenti. Hanno deciso di fuggire dalle campagne di Damasco dopo l’ennesimo dramma: il fratello di Jacob, 50 anni, artigiano del cuoio, è stato rapito di notte da sconosciuti, strappato dal sonno e incappucciato, dopo una denuncia. Da un anno non si sa più nulla di lui. Nessuno ha chiesto il riscatto. Tutta la famiglia è fuggita, solo la moglie lo aspetta ancora. Jacob, baffetto corto su un sorriso mite, e la moglie Nazek, 49 anni ben portati, sono da febbraio ad Amman con i due figli. Vivono in una casa in affitto pagata con l’aiuto di parenti negli Usa. Qui non possono lavorare, altrimenti vengono multati. “Avevamo organizzato tutto per andare in Spagna – racconta Nazek – facendo finta fosse un viaggio per turismo. L’ambasciata ce lo ha impedito”. Nel frattempo i soldi sono finiti in mano a vari sfruttatori. “Ci hanno promesso che potevamo mandare i figli in Olanda. Hanno preso i soldi e sono spariti”. Pur essendo entrati legalmente in Giordania sono registrati all’Unhcr e ricevono 96 dinari al mese per il cibo. Non sanno dove andare. Sanno solo che non torneranno più in Siria. “Ci hanno minacciato”. Anche Osib, 51 anni, di Aleppo, racconta, ancora agghiacciato, di quando ha visto uccidere davanti ai suoi occhi una donna musulmana su un bus. “Solo perché aveva osato chiedere: ‘Perché ci fate questo?’”. A lui è andata un po’ meglio perché ha avuto salva la vita. In cambio gli hanno rubato tutto ed estorto 10mila dollari. È qui con moglie e tre figli ma l’affitto è caro (185 dollari) e la vita costosissima. “Vogliamo andare via. Ma tutte le ambasciate ci rifiutano”.
L’incerto futuro dei giovani. Osama e Zial, 25 e 26 anni, sono amici per la pelle. Entrambi ingegneri delle telecomunicazioni, entrambi (stranamente) non ancora sposati. Tutti e due, finita l’università a Damasco, al momento della leva militare di due anni e mezzo nell’esercito governativo, hanno deciso di obiettare per non dover uccidere. Sono fuggiti da più di un anno lasciando a casa le famiglie. Ad Amman si ingegnano con lavoretti al computer, ma non è facile avere soldi a sufficienza per pagare l’affitto. In Siria non possono più tornare. Ziad non ha idea di quale futuro si prospetti alla Siria. “Forse la pace dipenderà solo da un intervento straniero piuttosto che essere partorita dai siriani stessi”, azzarda. Il futuro che vedono per loro è solo l’Europa. Sanno delle vie legali e illegali per arrivarci, ma non sanno nulla del regolamento di Dublino II che li obbliga a restare nel Paese di arrivo. La forza di affrontare la sfida dell’emigrazione con un amico o un parente è quella che manca invece a Girar, 23 anni, una croce tatuata sulla mano e un disperato senso di solitudine e sfiducia. Fuggito da Daraa illegalmente, è stato per un mese nel campo di Zaatari, isolato da tutti. Se ne è andato portandosi via la tenda. Ora dorme sul terreno di un cristiano di Amman. Vuole raggiungere il cugino che vive negli Usa, ma non ha il passaporto. I suoi occhi gonfi e rossi e la sua prostrazione si alleviano un po’ quando l’addetta Caritas gli suggerisce alcuni modi per tentare il ricongiungimento. Sorride mestamente. Il futuro, almeno per oggi, fa un po’ meno paura.