I leader religiosi, i governi. Tutti devono “fare di più” per sradicare dai cuori il male del radicalismo, per dire no al terrorismo religioso, per ricordare che le difficoltà non si risolvono con la violenza e che il nome di Dio si coniuga solo con pace e riconciliazione. È questo dunque il filo d’oro – dice Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio – che accompagna quest’anno l’Incontro internazionale per la pace. Dal 29 settembre al 1° ottobre, riunirà a Roma – “patria comune dei popoli che ha uno sguardo sul mondo e che accoglie tutti” – nello spirito di Assisi oltre 400 rappresentanti di religioni e culture di tutto il mondo. Una lunga scia di sangue ha segnato la vigilia dell’incontro. Gli attacchi più efferati si sono avuti a Peshawar, in Pakistan, dove due kamikaze si sono fatti esplodere nella chiesa anglicana di All Saints causando 85 morti e oltre 150 feriti e in Kenya, dove il bilancio delle vittime dell’attacco terroristico al Westgate di Nairobi per mano dei miliziani islamici del gruppo Shebaab è salito ad almeno 68 morti. “Il coraggio della speranza. Religioni e Culture in dialogo”, è il tema quest’anno dell’incontro internazionale per la pace.
Marco Impagliazzo, in nome di Dio si continua ancora ad uccidere. Che impressione le fanno, alla vigilia dell’incontro di Roma, tutte queste vittime?
“Dicono che dobbiamo fare di più. Anzitutto dobbiamo – come diceva il Papa nell’ultima udienza generale del mercoledì – pregare di più per i cristiani sofferenti e in difficoltà nel mondo. Siamo troppo ricchi, siamo troppo distratti per ricordarci di loro. In secondo luogo, dobbiamo impegnare di più tutte le religioni a denunciare il terrorismo religioso e a far sì che ogni forma di terrorismo sia qualcosa di espunto dal linguaggio religioso. Lo Spirito di Assisi è l’esempio vivente di come le religioni rifiutano qualsiasi tipo di guerra e di violenza per risolvere i conflitti. La grande intuizione di Giovanni Paolo II fu proprio questa: togliere alla religione qualsiasi pretesto per farsi intrappolare da un linguaggio violento e quindi ribadire che l’unico linguaggio religioso è quello della pace”.
È evidente che il radicalismo soprattutto di matrice religiosa, fa ancora presa nonostante gli impegni e le dichiarazioni d’intento. Dove si interrompe la catena della pace?
“C’è troppa disperazione nel mondo e siamo troppo distratti per vedere che c’è gente disperata che vive in situazione di povertà e difficoltà estrema. È un appello a tutti noi per lavorare per un mondo migliore per tutti”.
Sta dicendo che in condizioni di povertà estrema, il radicalismo religioso attecchisce di più?
“Non so se si può dire che ci sia più rischio ma la povertà può diventare un terreno dove i disegni dei violenti trovano un seguito. Non è sicuramente solo la povertà un fattore a rischio, se si considera per esempio che gli attentatori dell’11 settembre erano dei ricchi sauditi. Ma la povertà – come ha detto il Papa a Cagliari – può essere sfruttata a fini negativi”.
E che ruolo possono giocare i leader religiosi?
“La catena di violenza dimostra che non c’è ancora un linguaggio educativo che accomuna le religioni. Le religioni non sono cioè ancora arrivate a toccare il cuore di tutti gli uomini e di tutte le donne. Perché gli incontri nello Spirito di Assisi? Perché crediamo che sia uno spirito che si deve diffondere ancora più, che sia troppo poco diffuso, che deve penetrare in tanti luoghi dove ancora non c’è”.
Dalle sale di culto alle parrocchie, alle sinagoghe. Sì, ma come?
“Intanto con l’esemplarità della vita, far cioè sempre coincidere le parole che pronunciamo con la vita che conduciamo. E in questo senso troviamo un esempio molto chiaro in Papa Francesco nel suo saper far coincidere la parola con la vita e con l’invito a non dimenticare mai che c’è una povertà e una sofferenza che ha bisogno di risposte. Quindi coerenza di vita e coerenza della predicazione”.
Perché il coraggio della speranza?
“L’abbiamo mutuato da Papa Francesco che ha chiamato tutti gli uomini a non farsi rubare la speranza e particolarmente i giovani. Perché abbiamo visto che intorno a noi molti hanno perso coraggio. Si sentono fiacchi, si sentono deboli, anche le persone che dovrebbero guidare e educare gli altri. Un dato particolarmente evidente nella politica italiana. La difficoltà oggi dei partiti, delle organizzazioni ad esercitare un ruolo coraggioso nell’infondere speranza agli altri”.