Di Carmelo Petrone e Marilisa Della Monica
Colpisce il volto dell’arcivescovo di Agrigento, monsignor Francesco Montenegro, privo di quel sorriso che lo ha reso amato dai suoi fedeli e che riesce a trasmettere speranza e gioia. Lo raggiungiamo appena ritornato da Lampedusa dove si è recato per stare accanto alla popolazione dell’isola, al parroco don Stefano Nastasi che a breve lascerà il suo incarico, e per pregare e piangere i morti nel naufragio. È stanco e molto rattristato, mentre ci racconta la sua visita all’hangar dell’aeroporto trasformatosi in obitorio dove sono stati sistemati i 111 corpi recuperati. “Provo tanta indignazione – ci dice monsignor Montenegro – che rischia di diventare rabbia, un sentimento non cristiano, ma anche grande tristezza e un senso di colpa”. Tra i corpi schierati sul pavimento e sistemati all’interno di sacchi blu, in attesa che giungano sull’isola le bare necessarie per dar loro degna sepoltura, “alcuni – racconta l’arcivescovo – rimasti con le braccia alzate come a voler chiedere ancora aiuto”, anche quelli di quattro bambini, e a ricordare quel momento la voce di monsignor Montenegro s’incrina un po’: “C’era una bambina che sembrava dormisse, il suo viso era sereno come se non avesse vissuto la tragedia che l’ha portata alla morte. Vedendo i volti di quei bimbetti, morti così atrocemente, mi son chiesto ‘io che cosa sto facendo?’. Credo che questo interrogativo dobbiamo porcelo tutti”.
Di fronte a questa tragedia, certamente la visita di Papa Francesco a Lampedusa dello scorso luglio indica la strada dell’impegno che la Chiesa, in particolare quella agrigentina, deve perseguire.
“È stato lo stesso Papa Francesco a indicarcela: è la strada dell’accoglienza. Parlando di Lampedusa, il Santo Padre ha ricordato l’enorme sofferenza ma anche la grande accoglienza che non è dare un tetto a chi arriva, ma è un’accoglienza di cuore. Mi preoccupa e mi fa soffrire vedere come non tutti i cristiani abbiano il cuore aperto e mi addolora il fatto che anche tra gli operatori pastorali vi siano quelli che restano indifferenti o reputano il rimpatrio la soluzione al problema. In estate, durante il campo di lavoro organizzato dalla Caritas diocesana di Agrigento, ho incontrato una psichiatra che opera a Sousse, in Tunisia, e che attualmente lavora solo con le persone rimpatriate, gente mentalmente sconquassata e che non riesce più a riprendersi. Posso dire che il rientro forzato nelle loro terre di origine non è la soluzione migliore per queste persone. Le storie di questi nostri fratelli che arrivano sulle nostre coste non finiscono nel momento in cui le rimandiamo a casa: la loro vita sarà per sempre segnata dal fallimento, dalla sconfitta, dalla paura”.
Qualcuno ci accusa di buonismo, altri invece sostengono che questo modo di accogliere non favorisca una corretta immigrazione.
“Se buonismo vuol dire essere accoglienti e guardare a questi volti come a quelli di nostri fratelli, io sono contento di essere buonista. Fin quando le leggi per l’accoglienza non vengono fatte, io cosa devo fare? Devo voltarmi dall’altra parte e comportarmi come se queste persone non esistano? Il Vangelo c’insegna che se c’è un uomo per terra io lo devo aiutare. Se quello del samaritano è stato solo buonismo, allora significa che Gesù non ha proprio le idee chiare; se invece ce lo ha dato come esempio da seguire, io devo fare come il samaritano”.
Nella lettera inviata alla Chiesa agrigentina dopo la visita del Pontefice, lei ha scritto: “Dobbiamo maturare la consapevolezza che abbiamo ricevuto dal creatore una responsabilità grande per il fatto che ci troviamo nel cuore del Mediterraneo”.
“Diceva santa Teresina ‘niente succede per caso’ e credo che noi non siamo qui per caso e quando dico ‘noi’ mi riferisco a Lampedusa, alla Chiesa agrigentina, all’Italia. In questo momento il Mediterraneo è il deserto da percorrere per giungere alla terra promessa e noi abbiamo avuto la fortuna d’incontrare Mosè, Papa Francesco, venuto a Lampedusa per indicarci la strada da percorrere. Ecco perché è Provvidenza stare qui, al centro del Mediterraneo, ma è anche una grande responsabilità”.
Lunedì si terrà a Lampedusa il convegno regionale delle Caritas diocesane per rafforzare la rete di solidarietà nelle città e nelle diocesi mete di sbarchi, ma anche per coinvolgere tutta la Chiesa siciliana.
“Se ho invitato le Caritas a venire a Lampedusa è perché vorrei che tutta la Chiesa siciliana, aprisse gli occhi e si rendesse conto che c’è il Signore che bussa e che attende soltanto che gli si apra la porta. Ma anche perché la gente di Lampedusa – sta soffrendo non solo perché arrivano i naufraghi ma perché questi morti hanno segnato per sempre il loro cuore – ha bisogno di solidarietà. Allora trovarci lì, sarà presente anche il cardinale Romeo (arcivescovo di Palermo e presidente della Conferenza episcopale siciliana), vuol essere sì un momento di preghiera e di comprensione del fenomeno migratorio, ma anche un abbraccio alla gente di Lampedusa”.
Quello che accade sulle coste agrigentine è davvero soltanto un problema italiano, come dichiarano alcuni Stati europei?
“La maggior parte di questi giovani immigrati vuole andare altrove, l’Italia è un ponte e chiedono solo di poter passare per poter raggiungere le loro destinazioni finali. Mi chiedo: nella globalizzazione, tutto diventa di tutti, perché i poveri non lo diventano?”.