“Date a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quello che è di Dio”: questa frase del vangelo di Marco torna subito in mente quando si parla del rapporto Stato-Chiesa. Le parole di Gesù – l’immagine della “decima” è un tema amato dall’iconografia cristiana – sono state spesso fraintese. Ma hanno sicuramente avuto l’effetto di liberare il cristianesimo da un errore fatale che invece rimane ed è diffuso nell’Islam: l’Islam è “din wa Daula,” religione e Stato. Non vi è spazio di libertà, che derivi dalla legge religiosa.
I presidenti delle Conferenze episcopali europee, riunitisi a Bratislava, si sono occupati del tema “Dio e lo Stato. Europa tra laicità e laicismo”. Si tratta di un problema scottante per il presente e il futuro del continente europeo e dei suoi abitanti.
Per molti secoli il versetto di Romani 13,1 è stato il riferimento quando si affrontava il tema “Dio e lo Stato”: “ Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio”. Pochi versetti dopo San Paolo parla di coscienza e di amore. Ciò nonostante, dopo tutto ciò che è accaduto nel corso dei secoli – e soprattutto nel XX secolo – non si può più leggere il versetto 13,1 con l’ingenuità teologica di un tempo. Soprattutto in relazione alle oppressioni ideologiche del Novecento è difficile immaginare che quella violenza di Stato fosse originata da Dio.
In una drammatica lotta spirituale, dopo gli sconvolgimenti della prima metà del Novecento sono state trovate nuove risposte alla questione del rapporto tra “Dio e lo Stato”. Gli accenti sono diversi nei diversi Paesi d’Europa. Ma vi è un principio di base comune: la fine della religione di Stato che per molti secoli ha riempito la storia. Ora vale il rispetto della coscienza del singolo e il riconoscimento di diritti uguali per tutti, indipendentemente dalla denominazione di appartenenza di ciascuno.
La separazione tra Chiesa e Stato è avvenuta. In forma più rigorosa in Francia, dove regna il secolarismo; in modi molti più morbidi in Paesi come l’Italia o l’Austria, dove la “sana laicità” è diventata una evidenza. Questa “sana laicità” non ha paura della religione, essa garantisce e anche favorisce la presenza di Chiese e comunità religiose negli spazi pubblici. Secondo questa concezione Chiesa e Stato sono separati, ma nel servizio delle persone, che sono al tempo stesso cittadini e credenti, tra Chiesa e Stato vige un sistema di “collaborazione nella partnership”, nel reciproco rispetto della propria competenza. In questo sistema di “sana laicità”, si è consapevoli che è proprio lo Stato democratico a dipendere da condizioni che esso stesso non può creare.
Il contributo delle Chiese e delle comunità religiose è indispensabile, e ciò si riflette anche nell’articolo 17 del Trattato di Lisbona, ove è espressamente dichiarato che l’Unione europea rispetta lo status delle Chiese nei singoli Stati membri e che essa nel riconoscimento della loro identità “e del loro contributo specifico” porta avanti con le Chiese e le comunità religiose un “dialogo aperto, trasparente e regolare”.
Che negli anni dopo la “rivoluzione” del 1989, in particolare in Europa occidentale, vi siano nuovamente forti tendenze secolaristiche – che fondamentalmente non sono nulla di “moderno”, ma anzi una copia antiquata di fenomeni paralleli a cavallo tra il XIX e il XX secolo – è innegabile. Eppure ogni giorno in questa Europa “tra laicità e laicismo” si confermano le parole del grande filosofo napoletano Benedetto Croce scritte nel lugubre 1942 “Perché non possiamo non dirci cristiani”. Croce sosteneva che il Cristianesimo ha compiuto una rivoluzione “che operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale, e conferendo risalto all’intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fino allora era mancata all’umanità”. Di questa “Rivoluzione” vive anche l’Europa di oggi. Se dovesse sorgere una nuova cultura europea solida, non potrebbe prescindere dal contributo di questa rivoluzione.
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