Ritorna ogni tanto come un “leit motiv” già ascoltato, dalle parti dell’Accademia di Oslo, la decisione di attribuire il Premio Nobel della pace per incoraggiare azioni future, più che per obiettivi realizzati. È successo con il presidente Usa Barack Obama nel 2009, a soli otto mesi dal suo insediamento alla Casa Bianca. Nel 2007 con il Comitato intergovernativo Onu per i cambiamenti climatici. Nel 2012, con l’Unione europea. In questi anni, nonostante i buoni auspici degli accademici norvegesi, è evidente che le guerre non sono diminuite né grazie a Obama né all’Ue, tantomeno il riscaldamento globale è migliorato. La Siria è oggi il capitolo più scottante per i diplomatici che non riescono a trovare vie di pace risolutive. Tanto più dopo l’attacco del 21 agosto a Damasco con le armi chimiche. Ecco perché il ritornello si ripete con l’odierna assegnazione dell’ambito riconoscimento all’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac), quasi sconosciuta all’opinione pubblica ma fondata nel 1997 per dare attuazione al Trattato di interdizione all’uso delle armi chimiche del 1993, al quale aderiscono 189 Stati. Fra tre giorni farà il suo ingresso ufficiale anche la Siria.
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