C’è un ragazzo che abita a Malmö, in Svezia e ha 22 anni. Si chiama Siavosh Derakhti. È musulmano. È figlio di immigrati dall’Iraq, parte di una comunità che conta oltre 125mila persone nel paese scandinavo. Certamente Papa Francesco incontrando questo ragazzo lo abbraccerebbe con grande affetto e stima perché “non appiattisce la sua esistenza, non si lascia trascinare da ideologie, non giustifica mai il male che incontra, non abbassa la guardia contro l’antisemitismo e contro il razzismo, qualunque sia la loro provenienza”. Siavosh infatti ha deciso di impegnare le sue energie a lottare contro l’antisemitismo e gli stereotipi. Alla domanda “perché lo fai, proprio tu che sei musulmano?” ha risposto: “Voglio fermare l’odio e il razzismo nella mia città. C’è un sacco d’ignoranza tra i giovani e gli insegnanti sull’olocausto e sull’antisemitismo. Proprio perché musulmano, voglio far crescere la comprensione tra le persone e mediare per le strade della città e on-line, perché ci sia pace”.
Il viaggio studentesco ad Auschwitz. Racconta Siavosh che nel 2010, frequentando la scuola si è accorto dell’atteggiamento duro di alcuni compagni nei confronti degli ebrei. Così ha preso l’iniziativa di invitare due testimoni della Shoah a parlare agli studenti del suo istituto e ha organizzato il primo viaggio studentesco al campo di Auschwitz. “La mia proposta non aveva ricevuto alcun sostegno, né dagli insegnanti, né dalla dirigenza scolastica. Non mi sono scoraggiato” ed è riuscito a portare ad Auschwitz un gruppo di 27 studenti, molti dei quali musulmani, alcuni palestinesi. “Mentre eravamo lì molti ragazzi sono scoppiati in lacrime” racconta. “Hanno imparato molto da quell’esperienza”. Dopo pochi mesi Siavosh ha fondato l’associazione “Giovani musulmani contro l’antisemitismo” che si è poi allargata trasformandosi in “Giovani contro l’antisemitismo e la xenofobia”. Ora Siavosh passa il suo tempo a organizzare e guidare per tutta la Svezia incontri ed eventi su questi temi. Descrive così le reazioni che incontra tra i giovani: “Ce ne sono di positive e negative. Alcuni mi vorrebbero mettere a tacere, altri sentono la voglia di mostrare più amore. Ma non ho paura, combatterò per i diritti umani e per il futuro dei nostri figli a Malmö. Voglio che possano crescere qui senza essere considerati immigrati e non svedesi. E spero anche che le forze politiche xenofobe un giorno vengano cacciate dal parlamento”.
La conoscenza e l’amore. La chiave per risolvere il problema dell’odio tra le etnie? “La conoscenza e l’amore” risponde, e queste due parole tornano frequentemente anche sulla sua pagina Facebook in cui ora c’è una sua foto tra Barak Obama e il primo ministro svedese Fredrik Reinfeldt. È del 5 settembre scorso, quando il presidente statunitense ha fatto visita alla Grande Sinagoga di Stoccolma, per commemorare Raoul Wallenberg, che salvò la vita a oltre 100mila ebrei durante il suo servizio diplomatico a Budapest: consegnava agli ebrei, nell’Ungheria occupata dai tedeschi, i “passaporti di protezione”, documenti svedesi fasulli che però garantivano l’immunità di fronte ai nazisti e alla deportazione. Arrestato dai sovietici il 17 gennaio 1945 è morto forse in prigione nel ’47 o forse negli anni ’60 in un ospedale psichiatrico. La Svezia e la famiglia Wallenberg aspettano ancora la verità su quel “giusto tra le nazioni”. A Siavosh, il 27 agosto scorso, è stato consegnato il premio Wallenberg. Il giorno prima del passaggio di Obama a Stoccolma, avevo chiesto a Siavosh che cosa avrebbe detto al presidente. Aveva risposto così: “Voglio dirgli che dobbiamo mostrare più amore e più rispetto e sostenere gli ebrei, i musulmani, i Rom. Solo da lì possiamo cominciare a costruire ponti di pace. Dall’amore nasce l’amore, dall’odio nasce l’odio, dalla guerra la guerra. Gli dirò che mi chiamo Siavosh Derakhti e sono un combattente per la libertà e i diritti. Siamo tutti esseri umani e gli ebrei sono miei cugini”.
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