IvanDi Riccardo Benotti
Un affondo mancato al cuore spendaccione, talvolta senza controllo, della sanità pubblica. La legge di stabilità varata in questi giorni dal Governo Letta ha risparmiato il settore sanitario dai tagli che fino all’ultimo erano stati paventati. Ma qual è il costo reale che dovranno pagare i cittadini in termini di qualità di servizi e tutela dei diritti? Ne abbiamo parlato con Ivan Cavicchi, docente di sociologia delle organizzazioni sanitarie e di filosofia della medicina all’Università Tor Vergata di Roma.
Con la legge di stabilità il Governo ha salvato il settore della sanità dai tagli previsti. Ma questa sanità è in grado di salvare lo Stato?
“Il tentativo dei tagli lineari è come una parentesi che si è chiusa. Resta comunque il fatto che il finanziamento per la sanità nel 2014 è pari a 107,9 miliardi di euro, 2 in meno rispetto a quelli chiesti dalle Regioni. A decidere come saranno coperti questi soldi sarà il ‘Patto per la salute’, un accordo programmatico tra Governo e Regioni. Quest’ultime insistono molto sui Livelli essenziali di assistenza (Lea) e il mio timore è che si vada a una riduzione delle tutele. Almeno un quarto della spesa totale è già a carico delle famiglie. Le nuove povertà legate alla crisi inducono le famiglie a non curarsi e non possiamo permetterci di accentuare ancora di più questa realtà”.
A fronte della decisione del Governo di non toccare i conti della sanità, si potrebbe immaginare una rivisitazione del lavoro svolto da medici e personale sanitario?
“È un punto fondamentale. Non si cambia nulla se non si passa per il lavoro. Se l’azienda sanitaria è basata prevalentemente sulle professioni, bisogna passare per queste se si vuole modificare qualcosa. Il lavoro deve cambiare. Tuttavia, mentre da parte del sindacalismo medico e non solo si registra un’apertura, la controparte pubblica manifesta una forte chiusura. Come se il problema fosse di tipo esclusivamente finanziario e risolvibile tra Governo e Regioni. Senza contrappesi, anche il diritto alla salute è a rischio. Il lavoro è la chiave di volta per sgonfiare la spesa sanitaria senza distruggere i diritti. La stessa Cei ha organizzato recentemente un convegno mettendo il lavoro al centro del cambiamento. I profili professionali sono vecchi mentre tutto intorno è cambiato”.
La riforma del titolo V della Costituzione non sembra aver portato i benefici sperati. Come è possibile che ancora oggi non tutti i cittadini siano uguali di fronte alla possibilità di vedere curata la propria salute?
“Le Regioni hanno tutte le titolarità nella sanità mentre allo Stato è rimasto poco o niente. Questo è il primo errore, perché deve esserci un equilibrio tra i poteri. Non si può sbilanciare il sistema in periferia. Ciò ha impedito che ci fosse una regia centrale, comune anche nei sistemi federalisti. Non si deve però fare l’errore di ridare tutto allo Stato centrale. Andrebbe trovato un equilibrio nella relazione inter-istituzionale. Le Regioni hanno dato una pessima prova di capacità di governo, facendo le debite eccezioni. Sono rimaste delle istituzioni male organizzate che non sono state capaci di gestire tutto il potere che gli è arrivato. In qualche modo la sanità è come la Chiesa, ‘semper reformanda’, perché tanto complessa da dover essere sempre riformata. Le Regioni non lo hanno capito”.
 
Una siringa nel Lazio ha un prezzo di 3 centesimi in una Asl e 65 in un’altra. Una Tac in Sicilia costa il doppio rispetto alla Toscana e un apparecchio per la Tac nel Lazio costa il 36% in più rispetto all’Emilia Romagna…
“A squilibri storici tra Nord e Sud si è aggiunto il problema delle disuguaglianze: ci sono persone che hanno diritti e altre che non li hanno; c’è gente che accede ai servizi e gente che paga il triplo per averli. Si pensi che soltanto 8 Regioni in Italia attuano i Lea. Il diritto alla salute è garantito dalla Costituzione ma non tutti gli italiani possono accedervi. Il bisogno di salute si conosce solo localmente. C’è una complessità per la quale non è possibile governare la salute dal centro. Ridefiniamo, allora, i rapporti tra centro e periferia, recuperando gli eccessi e gli errori di questi anni”.
Pensare a una sanità pubblica che intraprenda la strada della privatizzazione non è rischioso per la tutela del diritto alla salute?
“Guardiamo all’America: Obama non ha mollato di un centimetro sull’ObamaCare, fino a rischiare di mettere in default un Paese. Questo ci deve far pensare. Il sistema pubblico costa meno del privato, perché si basa sulla solidarietà. Nel privato, invece, si cura soltanto chi ha reddito. La sanità pubblica è una forma importante di qualità sociale perché i cittadini curati alla stessa maniera garantiscono una migliore convivenza sociale. Finora il sistema misto tra pubblico e privato ha agito in una sorta di complementarietà che sarei per riconfermare e perfezionare. Bisogna essere chiari: ci sono delle aree che se non ci fosse il privato vivrebbero un vero abbandono sociale, come il mondo dell’handicap o della non autosufficienza. D’altra parte bisogna stare attenti a quei 30 miliardi di spesa sanitaria già pagati per l’88% dal cittadino: su questi soldi si stanno già affinando gli appetiti speculativi”.

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