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Dopo Lampedusa

DI Asmae Dachan

Non è il solito via vai quello alla stazione di Milano negli ultimi tempi. Tra le migliaia di persone in transito ci sono anche civili in fuga dalla morte: sono le famiglie siriane arrivate a Lampedusa e su altre città costiere del Sud Italia che attraversano in treno il Paese per raggiungere il Nord Europa.
Migliaia e migliaia di chilometri rincorrendo la speranza di una vita in pace. Intorno a loro un via vai di “angeli custodi”, volontarie e volontari di varie associazioni e nazionalità, alcuni davvero giovanissimi, che vanno loro incontro con coperte, vestiario, scarpe, offrendo loro aiuto, un pasto caldo e soprattutto un sostegno morale. Norvegia, Germania e Svezia sono le loro mete, ma per chi arriva la sera non ci sono partenze, bisogna aspettare i treni del mattino. Molte famiglie, così, si trovano a dormire una notte in stazione: bambini, donne, alcune anche incinta, coi loro mariti. Sono tutti giovani, sono tutti provati. La loro immagine, così fragile, così precaria, così dolorosa, si scontra con le gigantografie pubblicitarie di brand della moda che decorano la stazione.
I bambini sono spaesati, stanchi, confusi. Una piccola chiede: ma dove siamo? Giorni e giorni di viaggio, spostandosi da un posto all’altro, senza dormire, senza consumare un pasto caldo, senza potersi lavare e riposare. Raccontano di aver lasciato la Siria già da molto tempo a seguito dei bombardamenti, di aver raggiunto l’Egitto ed esserne poi fuggiti, dopo che negli ultimi mesi si è scatenata una vera “caccia al siriano”, e dalla Libia, dove veniva calpestato ogni loro diritto.
Hanno pagato fino a 7mila euro per imbarcarsi: era stato promesso loro un viaggio su una nave sicura. Al momento dell’imbarco gli scafisti hanno detto loro che quelle barche servivano solo per portarli fino alla nave; invece hanno passato su quei mezzi precari oltre 24 ore e di barche non se ne è vista traccia. “Eravamo come sardine in una scatola, attaccati l’uno all’altro, senza la possibilità di allungare le gambe – racconta un uomo che ha viaggiato con la moglie e tre figli di età inferiore ai sei anni – . Alcuni hanno fatto tutto il viaggio seduti su una sponda, col rischio di addormentarsi e finire in mare. Oltre a noi siriani c’erano tanti ragazzi africani. C’erano tantissimi bambini e donne. Sul nostro barcone un uomo si è sentito male ed è morto. Lo hanno gettato in mare senza pietà, davanti ai bambini increduli”.
“Per raggiungere l’imbarcazione abbiamo attraversato a piedi un tratto di mare, bagnandoci completamente fino al petto, tenendo stretti tra le braccia i bambini – racconta una giovane donna di ventiquattro anni, al sesto mese di gravidanza e già madre di due bambini. Gli scafisti hanno buttato in mare le nostre valige, tutto quello che avevamo. Siamo riusciti a salvare solo le cose che avevamo addosso. C’era chi piangeva, chi pregava; durante il giorno il sole ci ha bruciati, la sera faceva freddo da morire: ognuno stringeva a sé le persone vicine per scaldarsi. C’erano vomito e feci ovunque. Non era un viaggio per esseri umani. Quando siamo sbarcati ho toccato il viso dei miei figli, di mio marito. Eravamo vivi…”.
In un angolo, una delle donne piange, mentre sta allattando il figlio di pochi mesi. “Ha appena saputo che sua suocera è morta”, afferma una compagna di traversata. Quando il bimbo si addormenta, racconta il suo dramma. “Siamo partiti dalla Libia. Avevamo pagato 10mila dollari per partire tutti insieme: mia suocera, io, mio marito e i miei due figli. Abbiamo venduto tutto quello che avevamo. I soldi che ci sono rimasti, insieme ai documenti, li abbiamo affidati a mia suocera, che li ha messi in una sacca che ha indossato sotto la maglia. Hanno cominciato a farci salire; mio marito e mio figlio si sono sistemati, io e mia suocera abbiamo deciso di aspettare perché lei non si stancasse troppo, ma dopo qualche minuto l’imbarcazione ha cominciato ad allontanarsi. Ho preso a gridare affinché si fermassero. Sono andata da uno degli uomini a cui avevamo consegnato i soldi e ho cominciato a implorarlo di far tornare indietro la barca perché senza mio figlio non potevo vivere. Ho dovuto inginocchiarmi, baciargli i piedi più volte, supplicarlo, pregarlo finché non mi ha accontentata. Ha chiamato qualcuno con il walkie talkie e mi ha detto che mi avrebbe fatta salire su una zattera per raggiungerli. Mia suocera mi ha detto di non farmi problemi, di andare, promettendo che sarebbe salita sull’imbarcazione successiva. Ci siamo salutate e sono partita, riuscendo a raggiungere il barcone dove erano già saliti mio figlio e mio marito. Mia suocera è salita sul barcone partito dopo il nostro, quello che si è rovesciato poco prima di arrivare a Lampedusa. È una delle vittime di quel disastro. Povera anima, era tanto buona”.
Dolore che si aggiunge al dolore, nella diaspora siriana, mentre il Mediterraneo continua a essere un’immensa tomba senza lapidi. La notte cala alla stazione, il freddo si fa sentire. I bimbi hanno tutti la febbre. All’alba si riparte. Destinazione, Europa del Nord, con l’unica speranza di trovare, finalmente, un po’ di pace.

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