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Filippini, una comunità sconvolta

Di Adriano Bianchi

Che si prova quando si è lontani da casa? Se lo sono chiesti in tanti in questi giorni pensando ai tanti immigrati filippini in Italia. Una comunità unita, una comunità cristiana che si ritrova tutte le domeniche, in molte nostre parrocchie, a celebrare l’Eucaristia. Il loro cuore è certamente sempre unito alla patria lontana, alle famiglie, alle tradizioni di una Chiesa giovane ma ricca di fede. Ma oggi, cosa stanno provando, a distanza di migliaia di chilometri, quando la violenza del tifone ha travolto tutto quello che hanno conosciuto, che è legato ai loro ricordi, agli affetti, alle persone care della loro vita?
A pochi giorni dalla tragedia, nelle Filippine si contano le vittime e i dispersi. Il tifone Hayan ha distrutto, con venti fino a 300 km orari, tutto quello che ha trovato sulla sua strada: abitazioni, macchine, alberi e persone. Nonostante la copertura mediatica internazionale, le notizie faticano ancora ad arrivare. Manca la comunicazione spicciola, quella che permette un contatto telefonico, la rassicurazione necessaria che i propri cari stiano bene. Il silenzio di queste ore nella comunicazione diventa un fardello pesante, quasi insostenibile. Molti filippini abitano nelle nostre case, accudiscono i nostri anziani, sono inseriti nella pastorale sanitaria e sociale. Molte delle ragazze filippine arrivate in Italia negli anni Novanta hanno creato una famiglia, hanno sposato giovani filippini che poi le hanno raggiunte in Italia. Hanno fatto famiglia, stanno vivendo con noi la difficoltà della crisi economica e della perdita del lavoro che, per loro, è anche sostentamento per le famiglie d’origine, famiglie di cui ora non conoscono la sorte.
Che cosa si prova a stare così lontano? L’impulso sarebbe quello di partire subito, di andare a vedere, di poter abbracciare le persone care, ma anche questo naturale istinto si scontra con la mancanza di mezzi economici. Come affrontare un viaggio tanto lungo e difficile? Forse conviene aspettare. Questa comunità ha bisogno di sostegno. Già, cosa possiamo fare noi per loro? Per quelle popolazioni colpite dalla tragedia, ma anche per quelli che da qui vivono lo smarrimento della lontananza?
Iniziative concrete sono già state attivate dalla Cei, dalle diocesi e dalle tante realtà di cooperazione che mai sono assenti nei momenti di emergenza umanitaria. Ma quelli che sono qui, accanto a noi, come li aiutiamo? Sappiamo così poco di loro, se non che sono un popolo discreto e affidabile, li conosciamo come forza lavoro e non come fratelli. La tragedia di oggi può diventare l’occasione per intessere un dialogo più vero? Può farci scoprire questa nuova fraternità? Spesso è accaduto nei momenti di difficoltà. Ci si aiuta, ci si conosce, ci si apprezza, ci si vuole bene. Mai come oggi hanno bisogno di sentire calore e affetto.
Anche il dolore può essere un’occasione. Per questo, mentre guardiamo lontano e alimentiamo la solidarietà, non sprechiamo la possibilità di un percorso di comunione vicino. Ne va della qualità civile della nostra convivenza e della qualità cristiana della comunione ecclesiale. Un modo vero per uscire dal guscio della nostra autosufficienza e sentirci ancora di più fratelli.

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