Prima di una serie di riforme annunciate ieri da Xi Jinping al plenum del Partito comunista cinese, tra cui l’eliminazione dei campi di rieducazione tramite il lavoro.
Il Paese intende inoltre ridurre il numero dei crimini soggetti a pena di morte e vietare l’estorsione di confessioni con la tortura e maltrattamenti fisici. Sembrano segnali di un’attenzione più marcata ai bisogni della società e al rispetto dei diritti umani, ma gli osservatori si dividono tra cauto ottimismo, scetticismo e fiducia nella possibilità di cambiamenti.
Ciò che salta all’occhio è la retromarcia, seppur parziale, sulla politica del figlio unico, avviata negli anni ‘70 e imposta nel 1980 da una legge che obbligava le coppie a fermarsi a un unico erede, per ragioni di politica demografica e sovrappopolamento. Nell’arco di un trentennio, una imposizione così drastica sulle scelte delle famiglie si è risolta in un boomerang catastrofico: dal 1971 i medici cinesi hanno praticato 336 milioni di aborti e hanno sterilizzato 196 milioni di uomini e donne. Oltre 7 milioni di aborti all’anno, per quarant’anni. Oltre alle sofferenze personali e familiari – certo non documentate dalle stime -, il dato più drammatico riguarda milioni di bambine non nate: per ragioni culturali e sociali, essendo obbligate a una scelta unica, le coppie hanno optato per i maschi. Questo ha creato, ovviamente, una sproporzione demografica, con una popolazione con un forte divario di genere, in rapido invecchiamento.
La misura varata prevede un ammorbidimento della legge, ossia sarà consentito avere due bambini se uno dei genitori è figlio unico.
La condizione non è così stringente, considerando che gran parte di chi vorrà oggi prolificare in Cina, sarà nato durante l’ultimo trentennio. Ma si tratta di uomini e donne liberi di andare e moltiplicarsi… oppure?