Scalare le montagne è sempre stata la sua passione. E non è difficile crederci se vivi a pochi chilometri dalle Dolomiti, che al tramonto si accendono di rosso. Di arrampicarsi per le salite più impervie, don Giorgio non può fare a meno: “Non riesco più a fare molte attività come prima. Ad esempio, non posso andare a trovare gli anziani e i malati nelle loro case, e ho difficoltà a partecipare a tutte le attività che si svolgono in parrocchia. Ma vedo che le persone, guardandomi, trovano conforto per le loro prove”.
Parroco di Santa Sofia, una delle più antiche e amate chiese di Padova, don Giorgio Ronzoni non è un prete come gli altri. Da poco più di due anni vive su una sedia a rotelle, a seguito di un incidente in auto: “Non mi è ‘passata la vita davanti’ come raccontano altre persone che hanno vissuto momenti simili. Direi anzi che in una frazione di secondo ho provato sì dispiacere perché la mia vita finiva improvvisamente e prima di quanto mi aspettassi, ma anche curiosità per quanto sarebbe accaduto dopo”. Da quel giorno don Giorgio ha ripreso a salire la costa come ha sempre fatto, con fatica ma sostenuto da una cordata di amici: “Mi è apparso subito chiaro che il mio ministero subiva gravi limitazioni, ma si stava potenziando la mia missione”. E se qualche parrocchiano ora lo guarda come un santo o un eroe, lui non ha dubbi: “Sono semplicemente un uomo che cerca di continuare a fare ciò in cui crede, sostenuto dall’affetto e dall’aiuto di moltissimi. Più della tetraplegia, infatti, mi umiliano i tratti del mio carattere e le reazioni nei confronti delle persone che mi creano qualche normalissimo problema”.
È sorprendente assistere all’esperienza della debolezza che diventa forza. Tornano alla mente le parole con cui Paolo si rivolge ai Corinzi, quando ricorda loro come siano le membra del corpo che sembrano più deboli a essere le più necessarie. E in questo lungo e sorprendente anno, è bello scorgere tra i capitoli del pontificato di Francesco una pagina nuova nel rapporto tra la Chiesa e la fragilità. Non più percepita soltanto come una realtà da assistere ma come un mondo da valorizzare in parole, opere e (o)missioni. Basta guardare al Papa e al suo sostare prolungato, ad ogni occasione pubblica e privata, con quelle persone che lui ritiene essere al centro della Chiesa. Fino a rompere gli schemi e a invertire i protocolli, facendo attendere ore le autorità ammesse al baciamano per l’urgenza di precipitarsi dal popolo ferito. Perché è lì che tra ruote, bastoni e occhi deboli, la Chiesa ritrova il senso (e la potenza) della sua missione. Per don Giorgio, che per anni è stato direttore dell’Ufficio catechistico di Padova e rappresentante del Triveneto presso la Consulta della Cei, la strada in questa direzione era stata già tracciata: “A partire dagli anni ‘80 si è sempre più sottolineata l’importanza delle persone disabili non solo come termine della carità della Chiesa, ma come soggetti da includere attivamente nella vita della comunità cristiana. Certo, passare dai principi enunciati nei documenti o negli interventi del Papa alla realtà pastorale non è facile né immediato”. In questo la spinta di Francesco gioca un ruolo fondamentale. Ma don Giorgio, da pastore, non può dimenticare l’esempio di Wojtyla: “Quello venuto da Giovanni Paolo II è stato l’insegnamento più grande. Ha continuato a esercitare il suo ministero pur segnato da un grave e progressivo handicap, derivante dalla malattia”.
Eppure, ancora oggi, non è comune incontrare sacerdoti disabili immersi tra la gente. Quasi fossero i più invisibili tra gli invisibili. Don Giorgio però non è convinto: “Quanti sacerdoti con il passare degli anni perdono l’udito o la vista o la capacità motoria o soffrono di disturbi psichici più o meno gravi? In realtà le disabilità fisiche e psichiche sono assai comuni ma ci sforziamo di non vederle: un prete in carrozzina lo si vede subito e suscita compassione e magari ammirazione mentre uno gravemente depresso o alcolista lo si considera appena, se non addirittura con disprezzo”. Per il parroco di Santa Sofia “le fragilità sono tante, non ci sono quelle buone o quelle cattive. Tocca alle persone con disabilità non nascondersi, non vergognarsi, condividere la propria povertà permettendo così agli altri di vincere le ‘disabilità del cuore’, cioè l’egoismo e la chiusura in se stessi”.
Quando era in ospedale, don Giorgio si è sentito prigioniero di un corpo immobile: “Allora mi sono chiesto: cosa mi sta a cuore veramente? Ho ancora la possibilità di annunciare la parola di Dio. Mi basta o voglio altro?”. La risposta è venuta da sé.