Luglio 2013, la speranza: Papa Francesco davanti all’altare a forma di barcone a Lampedusa grida il suo forte appello contro “la globalizzazione dell’indifferenza”. Ottobre 2013, la tragedia assoluta: 366 bare allineate nell’hangar dell’aeroporto della stessa isola. Sono immagini che non si dimenticheranno, in questo anno guardato con lo sguardo di chi accoglie e di chi migra.
Immagini difficili da dimenticare per il pescatore lampedusano che ha dovuto scegliere tra chi salvare e chi lasciare annegare. Ora la notte non riesce più a dormire per gli incubi. Sarà difficile per i soccorritori che hanno dovuto recuperare le salme dei migranti incastrate sul fondo del barcone, fino all’orrore estremo di una mamma morta insieme al figlio che stava partorendo. E sarà impossibile da dimenticare per i sopravvissuti, la maggior parte eritrei, ma anche siriani, somali, etiopi, in fuga da conflitti senza fine o regimi oppressivi, passati per deserti, torture, violenze sessuali, fame, sete, minacce, sequestri, carceri. Gente che non ha paura di rischiare la morte attraversando il mare. Perché tra morte certa in Africa e morte probabile in Europa, non ci sono scelte. Noi cosa faremmo al loro posto?
È questo che l’opinione pubblica italiana ed europea fa più fatica a capire. Perché non è in grado di fare distinzione tra richiedenti asilo e migranti per motivi economici. Perché il diritto a sognare una vita migliore – in patria o altrove – accomuna l’essere umano nella sua essenza più profonda. E invece, quando la vita diventa più precaria per tutti, inizia la guerra tra poveri, si cerca il solito, antropologico, capro espiatorio, su cui scaricare responsabilità che andrebbero cercate altrove. I migranti diventano troppi, rubano, portano via il lavoro e la case che non ci sono, i posti negli asili nido, rallentano il lavoro nelle classi scolastiche e via con la lunga serie di pregiudizi e luoghi comuni alimentati da media e politici disonesti.
Perché se si va a guardare la realtà, le cifre dicono tutt’altro: l’invasione via mare, su una popolazione di 60 milioni di abitanti con 5 milioni di immigrati regolarmente residenti, ha riguardato quest’anno 40mila richiedenti asilo. E se le strutture di accoglienza, a Lampedusa, in Sicilia, sono sempre sovraffollate e al tracollo, è segno che nella macchina organizzativa qualche oscuro meccanismo si inceppa e non si capisce perché. Forse per dare una percezione sbagliata del fenomeno? Perché i posti per l’accoglienza ci sono: dopo l’appello di Papa Francesco al Centro Astalli di Roma, quando ha chiesto ai religiosi di mettere a disposizione i conventi vuoti per i migranti, alla Caritas sono arrivate tantissime offerte, e sono tanti i posti vuoti nei centri e nelle strutture cattoliche. Eppure il ministero dell’interno non li vuole. Non risponde e non dà ragioni.
L’Europa, che si è trovata improvvisamente sconvolta dalla tragedia del 3 ottobre a Lampedusa, ha fatto una serie di promesse. Un nuovo sistema di asilo comune, iniziative e fondi per pattugliare i mari, per fare accordi con i Paesi di partenza. Eppure se si va a guardare bene, tutto mira sempre più ad una esternalizzazione delle frontiere. Bisogna tenerli fermi in Africa o in Asia. Chiudendo gli occhi sulle guerre o sugli abusi dei regimi che provocano le migrazioni. Costi quel che costi. Senza prendersi la responsabilità morale di tutto quello i migranti devono subire nei propri Paesi, nelle carceri libiche o nelle traversate dei deserti.
Di contro, in questa Italia avviata verso un grigio declino, si sta verificando un fenomeno nuovo ed opposto: i migranti, sfiduciati, tornano al proprio Paese (nel 2011 ne sono rientrati 200mila e si stima una cifra simile per il 2012) perché qui non vedono più futuro. Proprio come gli italiani, soprattutto i giovani, che trasferiscono la propria residenza altrove, per cercare un lavoro, un’opportunità: in Germania, Svizzera, Gran Bretagna, Francia: 68mila nel 2012, 18mila in più dell’anno precedente e 28mila in più del 2010. Il mondo è in movimento, la vita è un viaggio, c’è chi va, c’è chi torna. Perché non accettare questo flusso inevitabile di cambiamento, confronto, dialogo tra differenze? Tornano al proprio Paese perfino le badanti moldave, portando con sé gli anziani italiani da accudire. È un piccolo fatto: ma non sarà forse simbolico di un comune destino?