“Fermiamoci davanti al Bambino di Betlemme. Lasciamo che il nostro cuore si commuova, lasciamolo riscaldare dalla tenerezza di Dio; abbiamo bisogno delle sue carezze. Dio è grande nell’amore, a Lui la lode e la gloria nei secoli! Dio è pace: chiediamogli che ci aiuti a costruirla ogni giorno, nella nostra vita, nelle nostre famiglie, nelle nostre città e nazioni, nel mondo intero. Lasciamoci commuovere dalla bontà di Dio”.
Con queste parole il Papa ha concluso il suo primo messaggio “Urbi et Orbi”, ancora una volta alla maniera di Francesco. Ovvero, con le parole del cuore che accarezzano. Ma sarebbe sciocco pensare che le ragioni del cuore vogliano coprire o sminuire il cuore delle ragioni. C’è in Francesco la consapevolezza assoluta che il centro della vita (e naturalmente della fede) sta tutta lì, in quel Bimbo destinato a cambiare il corso della storia e la nostra di vita.
Questa certezza dei cristiani, per nulla irragionevole, trova un riscontro quotidiano nella prevalenza del bene. L’umanità, pure a tratti irragionevole, non riesce a distruggersi. Lo stesso rischio dell’olocausto nucleare che accompagna i moderni, pur concreto, è ragionevolmente da escludere. Anche se viene evocato, soprattutto quando il sentimento del nulla e del vuoto, danno a intendere di aver conquistato terreno nel territorio degli uomini irragionevoli o fanatici.
Ecco, dunque, la grande responsabilità dei cristiani: coltivare, con il cuore e la ragione, la speranza. Per tutti, credenti e non credenti, quella di un futuro migliore. Di pace e non di assenza o sospensione di guerra. Per i soli credenti, l’attesa del regno del Bambino di Betlemme. Fra uno schiaffone della vita e una carezza del nostro Dio.
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