La zona è quella del Four Seasons Hotel, non lontano da dove il 14 febbraio 2005 venne ucciso, sempre in un attentato, l’allora premier libanese Rafiq Hariri, a poche centinaia di metri dalla sede del governo. Oggi è toccato all’ex ministro delle Finanze, esponente del movimento al Mustaqbal (Il Futuro). Al momento dell’attentato Shatah era in macchina, diretto a una riunione della coalizione denominata del “14 marzo”, ostile al regime di Bashar al Assad e favorevole all’opposizione siriana. Shatah è una figura di rilievo nel panorama politico libanese. Braccio destro dell’ex premier Saad Hariri e leader dell’opposizione parlamentare vicina all’Arabia Saudita, ostile agli Hezbollah e all’intero asse filo-iraniano in Libano e nella regione, Shatah aveva ricoperto la carica di ambasciatore libanese negli Stati Uniti e consigliere dell’ex premier Fouad Siniora. Significativo il messaggio scritto pochi minuti prima di essere ucciso nel suo profilo Twitter: “Hezbollah sta realizzando la stessa strategia del regime siriano, vuole far tornare la situazione in Libano come quando era sotto il dominio di Damasco”. Un commento molto duro nei confronti del regime siriano e dei suoi alleati Hezbollah ed Iran.
L’attentato di oggi è solo l’ennesimo di una serie – l’ultimo risale al 19 novembre, contro l’ambasciata dell’Iran a Beirut in cui sono morte 25 persone e 146 sono rimaste ferite – che sta costellando una delle peggiori crisi politiche del Libano dalla fine della guerra civile (1975–1990). Il duro confronto tra il governo, vicino ai Paesi occidentali, e l’opposizione, sostenuta da Siria e Iran, sta impedendo l’elezione del nuovo presidente, carica vacante da novembre scorso. Da allora il voto parlamentare per decidere il successore di Emile Lahoud è stato rimandato 14 volte. Una situazione denunciata con forza dai vescovi maroniti del Paese che non più tardi di tre settimane fa – era il 4 dicembre – hanno denunciato come certe nazioni si comportano nei confronti del Libano “come se non fosse uno Stato sovrano”, e pretendono di esercitare nei suoi confronti un “diritto di tutela” facendo diventare il Libano ostaggio delle “prove di forza degli equilibri regionali e delle politiche internazionali”. Nel comunicato, diffuso al termine della loro assemblea mensile, compaiono chiari riferimenti ad atti di “pirateria” israeliani e, in modo più implicito, all’alleanza tra Iran e Hezbollah, il partito degli sciiti libanesi. Parole dure anche nei confronti della classe politica libanese, accusata di servilismo, corruzione e clientelismo su base confessionale. Un dejà-vu per i vescovi del Paese che, spesso, in passato avevano messo in guardia sull’instabilità interna e sulle influenze esterne a scapito proprio di quell’equilibrio politico che, come riconosciuto da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI, è sempre stato considerato un esempio per tutta la Regione.
Tornano le parole di Papa Ratzinger, pronunciate nel corso del suo viaggio in Libano del settembre 2012, quando ricordò che questo equilibrio “è estremamente delicato. Esso rischia a volte di rompersi allorquando è teso come un arco, o sottoposto a pressioni che sono troppo spesso di parte, interessate, contrarie ed estranee all’armonia e alla dolcezza libanesi. È qui che bisogna dar prova di reale moderazione e grande saggezza. E la ragione deve prevalere sulla passione unilaterale per favorire il bene comune di tutti”.
Era il 3 maggio scorso, quando Papa Francesco incontrò l’allora presidente della Repubblica libanese, Michel Sleiman. In quell’occasione i due parlarono della situazione nel Paese dei Cedri sottolineando “l’importanza del dialogo e della collaborazione tra i membri delle diverse comunità etniche e religiose, in favore del bene comune, dello sviluppo e della stabilità della Nazione”, come anche della situazione regionale, “con speciale riferimento al conflitto siriano” e ai profughi che hanno cercato rifugio in Libano e nei Paesi vicini.
È del 25 dicembre, infine, nel suo primo messaggio “Urbi et Orbi”, il richiamo di Papa Francesco a fermarsi davanti al Bambino di Betlemme. “Dio è pace: chiediamogli che ci aiuti a costruirla ogni giorno, nella nostra vita, nelle nostre famiglie, nelle nostre città e nazioni, nel mondo intero”. Un chiaro invito anche ai libanesi affinché il loro Paese continui a essere un esempio di equilibrio e un laboratorio di convivenza religiosa e politica.