Se è vero, come sosteneva uno scrittore francese, che nessuna legge impone la decenza ma tutte le persone oneste la rispettano, allora il caso di Caterina dovrebbe far riflettere su una deriva (im)pietosa che il nostro Paese vive ormai da troppo tempo: l’esercizio impotente dell’offesa e dell’ignoranza. Pensieri che meriterebbero un imbarazzato silenzio e che invece, dietro la spinta compulsiva della socialità ad ogni costo, imbrattano la Rete in forma di commenti e messaggi. Quasi che tutti si sentano legittimati a dover esprimere un’opinione su tutto, in tutti i modi, a tutte le ore, per tutte le salse. Senza prendersi il tempo di approfondire, capire, ragionare. E magari sperimentare, alla fine, non un farmaco pericoloso ma un sano senso di vergogna.
Dunque se l’uomo è chiamato a essere custode del Creato e del destino della vita sul pianeta – di tutta la vita, compresa la sua -, perché dividersi tra chi vorrebbe sperimentare senza regole (peraltro illegale in Italia) e chi ambirebbe alla beatificazione del regno animale? Caterina questo errore non lo ha commesso, a differenza di tanti soloni che tirano per la giacchetta persino i pontefici quando si tratta di giustificare le proprie convinzioni etiche. Lei, soltanto ieri, scriveva sul suo profilo: “Grazie a chi mi sta difendendo. Anche se più che difese io preferisco le persone razionali che discutono, che si informano e si confrontano contro chi ha pareri opposti”. Da qui dovremmo ripartire.