X

“È un prete felice? Vedrete… saprà fare del bene”

Di Maria Chiara Biagioni
La testimonianza di vita più che la predicazione. La coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa, più che i buoni propositi. Con una certezza e una fiducia: che c’è nell’uomo una sete di infinito e che anche in un mondo contrassegnato da indifferenza e scetticismo, tutti anelano alla verità. È un fiume in piena il cardinale Paul Poupard, mentre parla ai 550 partecipanti al convegno annuale promosso dall’Ufficio nazionale Cei per la pastorale delle vocazioni. Una platea composta per lo più da sacerdoti, religiosi e suore. A Roma dal 3 al 5 gennaio per parlare di scelte di vita impegnative, di vocazione, di consacrazione a Dio. Lo slogan scelto per questo incontro è: “Apriti alla Verità, porterai la Vita”. Classe 1930, il cardinale Poupard è presidente emerito del Pontificio Consiglio della cultura e del Pontificio Consiglio per il dialogo iInterreligioso. A lui è stato affidato il compito di parlare della “ricerca della verità nella cultura contemporanea”. “Una cultura alla Pilato – dice subito -: si interroga e non risponde”. Ma – aggiunge – “la ricerca della verità nella cultura contemporanea, nonostante l’esistenzialismo ateo, lo strutturalismo devastante, il freudo-marxismo di Erich Stromm e infine il pensiero debole di Vattimo, non sparisce mai”. Essere allora testimoni significa – afferma Poupard – “innanzitutto aprire al senso della vita, dell’amore e della morte. Significa destare nel profondo dell’essere, l’amore della verità e far sorgere le vere domande che vanno dal come al perché. È rendere attenti, significa guardare con occhi nuovi se stessi, gli esseri e il mondo in divenire e di questi esseri e del mondo scoprirne la verità”.
Eminenza, oggi rispetto al passato, c’è più indifferenza che contestazione. Come far innamorare i giovani alla verità?
“Sono convinto sempre di più che i giovani anche a loro insaputa cercano la verità. E sono spaesati e un po’ delusi perché la pubblicità, i media presentano tante verità che si rivelano non-verità. Come aiutarli a fare la differenza? Penso che non c’è altro metodo che la testimonianza, e a questa testimonianza sono chiamati in modo particolare gli insegnanti, i genitori, i sacerdoti, i religiosi. Ma anche i giovani stessi possono diventare testimoni vivi”.
Chi è stato per lei un testimone credibile?
“Penso alla prossima canonizzazione di Giovanni Paolo II: attraverso la sua vita, si vede un uomo che non ha mai ingannato nessuno e che non si è mai lasciato ingannare. Ha combattuto a mani nude. Ricordo la prima volta che è venuto a Parigi quando ha incontrato i giovani. Fu un incontro difficile, pieno di incognite. Alla fine Giovanni Paolo II è riuscito a far passare il suo messaggio. In lui non c’era populismo, nessuna demagogia. Lui non ha mai nascosto la croce. Anzi, ne ha dato un esempio commovente alla fine della sua vita con la sua malattia. L’ultima volta che mi ha ricevuto, avrei avuto voglia di piangere perché il Papa non aveva più che i suoi occhi per farmi festa”.
Papa Francesco invece: perché ha così tanto successo con le persone?
“Per me il segreto del suo successo sta nel fatto che in lui la gente vede più che una coerenza, una vera e propria identificazione totale tra quello che dice e quello che è. La sua realtà è il Vangelo. Non cerca di combinare le cose, ma di dare il Vangelo”.
E a suo avviso, oggi i religiosi e i preti sono testimoni credibili?
“Sono i giovani che lo dicono. Vedo per esempio che in questi giorni tutta la Francia si è mobilitata per un parroco, un giovane prete francese (padre Georges Vandenbeusch, ndr) che è stato rapito in Nigeria. Perché si sono appassionati alla sua storia? Perché è un giovane prete che è partito per l’Africa e lo ha fatto per nessuna ragione politica o economica ma solo per portare la Buona Novella dell’amore di Dio. Un prete qualunque che ha scelto di dare la vita per altri. Un prete felice. È tutto lì il segreto. Lo diceva anche l’antico arcivescovo di Parigi, cardinale Jean Verdier: non poteva conoscere tutte le migliaia di sacerdoti della arcidiocesi e così quando si doveva scegliere qualcuno per incarichi importanti, confidava ai suoi collaboratori: farà del bene, se sarà felice. Se un prete non è felice, sarà difficile che saprà fare del bene”.
Redazione: