Di Cristiana Dobner
Nel messaggio di Francesco, pastore di coloro che seguono Cristo, per la Giornata delle Vocazioni, emerge una dinamica che sconvolge la vita e fa sussultare la mente: “La vocazione scaturisce dal cuore di Dio e germoglia nella terra buona del popolo fedele, nell’esperienza dell’amore fraterno”.
Quando si guarda negli occhi un consacrato o una consacrata, al di là di ogni traccia di bellezza, giovialità, attrazione, dovrebbe balenare un pensiero: “Costui o costei è quello o quella che è, solo perché è scaturito o scaturita proprio dal cuore di Dio”.
È fuor di dubbio che, se la persona che vive la relazione con Dio non ne ha viva percezione ed esperienza, nulla potrà trapelare all’esterno.
Tuttavia, è innegabile che la storia dell’umanità viene perforata dalla richiesta di Dio, il suo cuore, cioè tutto l’amore Dio, trapassa i secoli, gli anni e si irradia, chiede con semplicità che Gli si faccia spazio, Gli si conceda tempo. A farlo è proprio Lui il Signore dello spazio, il Signore della storia e, dopo aver tanto lavorato “perché la messa è abbondante”, non vuole raccogliere i covoni e rallegrarsene in proprio da buon agricoltore, ma si fa da parte e “richiede la nostra libera adesione ad agire con Lui e per Lui”.
Il lavoro non è la creazione di chi si sente chiamato, l’esito non è la programmazione realizzata, è pura e sola adesione a Cristo.
La perenne difficoltà nella relazione con Dio e con i fratelli e le sorelle è sempre quella dell’autodecisione, dell’autoproclamazione di se stessi a misura di ogni cosa e di ogni itinerario di vita. Così facendo riduciamo Dio alla nostra misura, invece di lasciarci trasfigurare nella Sua misura.
La carta vincente è “sempre un esodo da se stessi per centrare la propria esistenza su Cristo e sul suo Vangelo”. Non ci possono stare due centri nel cuore della persona, deve essercene uno solo: Cristo.
Tutta l’esistenza quindi subisce un ritmo incessante, finché non viene a trovare il suo riposo, da sé a Cristo, passando per ogni evento quotidiano che, se bene osservato, può dare la misura dell’egocentrismo o del Cristocentrismo di ogni decisione, di ogni sentire, di ogni risposta data a chi versa nel bisogno.
Posto che si sia afferrata quest’urgenza, come, in concreto declinarla ed incarnarla?
Le mosse sono tanto semplici quanto radicali:
chiamati ad adorare Cristo nei nostri cuori: e non noi stessi con i desideri che creano impulsi e cortocircuiti fra la mente e il proprio ombelico, producendo sterile vanagloria;
per lasciarci raggiungere dall’impulso della grazia contenuto nel seme della Parola: la condizione previa è l’apertura che consenta all’amicizia di Dio di farsi sentire e gustare, di farsi grido ed appello che non può essere zittito;
deve crescere in noi: non è sufficiente che ci sia (potrebbe anche non esserci!!) ma deve dilatarsi, superare il micro spazio personale per distendersi nello spazio universale;
trasformarsi in servizio concreto al prossimo: nell’alchimia dell’amore che non conosce le regole della chimica o del commercio ma quelle dell’oblazione e della dimenticanza di sé.
Lo stupore poi non ha limiti: non ci è chiesto il duro lavoro della preparazione del terreno, della semina, della pulizia dalle erbacce, della preoccupazione climatica magari dannosa alla crescita, ci è chiesta solo la gioia di riconoscere e di raccogliere in quella “messe abbondante che Dio solo può elargire”, traboccanti di “gratitudine per un amore che sempre ci previene”. Come e perché rifiutarsi?