L’abolizione del reato di clandestinità “può essere un contributo per andare verso una totale revisione del sistema di trattenimento degli immigrati che vivono situazioni di irregolarità amministrativa. È chiaro che noi chiediamo la chiusura dei Cie, se questo è un primo passo l’accogliamo con grande favore”. È il commento di Oliviero Forti, responsabile dell’area immigrazione di Caritas italiana.
“I tragici fatti di Lampedusa hanno riaperto con forza il tema del reato di clandestinità – osserva -. Da una tragedia è emersa una presa di coscienza collettiva sul fatto che alcuni strumenti nel nostro ordinamento sono assolutamente inadeguati per una corretta gestione del fenomeno migratorio”.
Tra questi, precisa, “l’approccio visibilmente più deteriore era proprio il reato di clandestinità, che creava grande precarietà”.
La formulazione del ddl mantiene però il reato penale in caso di secondo ingresso irregolare: “Si capisce che c’è stata una mediazione – afferma Forti -.
Non so nei fatti quanto questo può essere utile
. A mio avviso si sarebbe potuto avere un po’ più di coraggio”. In ogni caso, il provvedimento “andrà ad alleggerire molto la vita di queste persone e tutto l’apparato amministrativo – spiega -, perché la previsione di un reato significa mettere in moto una macchina costosa la cui efficacia è assolutamente pari a zero”.
Finora il reato di clandestinità, ricorda Forti, “è stato solo un costo per la collettività, ma è servito a qualcuno in termini di consensi. Nei fatti, chi ci lavora sa che tipo di sofferenza ha provocato”. Riferendosi ad alcune dichiarazioni del ministro degli esteri Bonino, anche il responsabile di Caritas italiana mette in guardia contro il rischio “dal punto di vista comunicativo, di associare il tema della protezione internazionale a quello del terrorismo. Tra tecnici ci si comprende, ma l’opinione pubblica rischia di fare una equazione pericolosa”. “Anche grazie al lavoro svolto dalle forze dell’ordine – dice – l’Italia non mi sembra aver sofferto finora situazioni di particolare allarme sociale collegate all’ingresso di cittadini richiedenti protezione internazionale. E comunque, di fronte ad un pericolo di questa natura, la risposta non possono essere i Cie (Centri di identificazione ed espulsione), che rappresentano un sistema totalmente fallimentare. Le esigenze di sicurezza non devono costituire un alibi per il trattenimento nei Cie”. “C’è la necessità – conclude – di trovare un equilibrio tra le questioni di sicurezza da garantire a tutti, immigrati compresi, e le esigenze di tutela dei diritti umani”.
“I tragici fatti di Lampedusa hanno riaperto con forza il tema del reato di clandestinità – osserva -. Da una tragedia è emersa una presa di coscienza collettiva sul fatto che alcuni strumenti nel nostro ordinamento sono assolutamente inadeguati per una corretta gestione del fenomeno migratorio”.
Tra questi, precisa, “l’approccio visibilmente più deteriore era proprio il reato di clandestinità, che creava grande precarietà”.
La formulazione del ddl mantiene però il reato penale in caso di secondo ingresso irregolare: “Si capisce che c’è stata una mediazione – afferma Forti -.
Non so nei fatti quanto questo può essere utile
. A mio avviso si sarebbe potuto avere un po’ più di coraggio”. In ogni caso, il provvedimento “andrà ad alleggerire molto la vita di queste persone e tutto l’apparato amministrativo – spiega -, perché la previsione di un reato significa mettere in moto una macchina costosa la cui efficacia è assolutamente pari a zero”.
Finora il reato di clandestinità, ricorda Forti, “è stato solo un costo per la collettività, ma è servito a qualcuno in termini di consensi. Nei fatti, chi ci lavora sa che tipo di sofferenza ha provocato”. Riferendosi ad alcune dichiarazioni del ministro degli esteri Bonino, anche il responsabile di Caritas italiana mette in guardia contro il rischio “dal punto di vista comunicativo, di associare il tema della protezione internazionale a quello del terrorismo. Tra tecnici ci si comprende, ma l’opinione pubblica rischia di fare una equazione pericolosa”. “Anche grazie al lavoro svolto dalle forze dell’ordine – dice – l’Italia non mi sembra aver sofferto finora situazioni di particolare allarme sociale collegate all’ingresso di cittadini richiedenti protezione internazionale. E comunque, di fronte ad un pericolo di questa natura, la risposta non possono essere i Cie (Centri di identificazione ed espulsione), che rappresentano un sistema totalmente fallimentare. Le esigenze di sicurezza non devono costituire un alibi per il trattenimento nei Cie”. “C’è la necessità – conclude – di trovare un equilibrio tra le questioni di sicurezza da garantire a tutti, immigrati compresi, e le esigenze di tutela dei diritti umani”.