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Da “Spaghetti story” un bel calcio alla precarietà

Di Patrizia Caiffa
“In Cina esiste una parola, un ideogramma, che significa sia crisi, sia opportunità”. Una suggestione, un’immagine, che può racchiudere il significato dell’esperienza vissuta dalla squadra del film indipendente “Spaghetti story”, capeggiata dal regista romano-salernitano Ciro De Caro, trentanovenne che conosce bene la condizione di precarietà vissuta dai coetanei. Tanto da averla raccontata in un film autentico, delizioso e coraggioso (dove ci sono anche i cinesi). Autentico perché lo sguardo sul vissuto dei protagonisti è talmente vero che sembra di vederci dentro le nostre storie o quelle che abbiamo intorno. Delizioso perché il tono della narrazione, seppur con momenti che potrebbero virare sul drammatico, è sempre lieve, ironico e pieno di fiducia. Coraggioso perché De Caro, con amici in gamba e pochi mezzi, dopo i no delle grandi distribuzioni, si è autoprodotto un film low cost con 15mila euro (vendendosi l’auto), undici giorni di lavorazione e location in case di conoscenti. E come per cucinare un piatto di spaghetti ci vuole poco, ma il risultato è comunque gustoso e genuino, così la storia omonima, ambientata nelle periferie romane, è diventata un caso: uscito a Natale in un solo, piccolo cinema romano sfidando il “cinepanettone”, ha venduto in poco tempo 5mila biglietti, con tantissime serate “sold out”. Ora a Roma lo proiettano in tre sale, sta girando per l’Italia e nei festival internazionali. Ogni sera regista e attori si confrontano con il pubblico. I social network hanno fatto il resto. Così la storia di Valerio, bravo attore che si arrangia con lavoretti da clown, della fidanzata Valeria che vorrebbe avere un figlio, dell’amico “Scheggia”, che sa come crearsi “una posizione” facendo il pusher e di Giovanna, massoterapista appassionata di cucina cinese, diventa un messaggio forte ai giovani e un monito agli adulti, incapaci di offrire vere opportunità ad una generazione stanca di sentirsi solo appiccicare addosso l’etichetta “precario”. Due parole con il regista:
Cosa è e come vivi la condizione di precarietà?
“La precarietà non si vive solo in termini occupazionali. Si diventa precari nella vita, nei sentimenti, nei rapporti di amicizia. Siamo incapaci di immaginare il nostro futuro, di fare programmi, di fare un figlio. La precarietà ci fa vivere alla giornata e ci rende incapaci di crescere. Come i cinesi usano una stessa parola per indicare la crisi e l’opportunità, anche noi possiamo volgere la precarietà a nostro favore, dandoci delle opportunità”.
Vi aspettavate questo successo? Qual è stato il segreto?
“Siamo sorpresi ma consapevoli del fatto che ce lo siamo guadagnato. Abbiamo realizzato un film che alla gente piace, ci siamo impegnati mettendo a disposizione tutte le nostre conoscenze e capacità. Abbiamo dimostrato che noi giovani le cose le sappiamo fare e non dobbiamo aspettare di avere 60 anni perché ci permettano di farle. Sappiamo usare le nuove tecnologie: abbiamo girato il film usando una macchina fotografica e facendo tutto con un computer. Un buon ufficio stampa e i social network”.
Ora i grandi distributori si staranno mangiando le mani…
“Io avevo fatto vedere il film a tutti i grandi distributori. Nessuno lo ha voluto. Ci dicevano: ‘tu non sei famoso’; ‘la storia non è una commedia’ (e invece la gente ride); ‘non ci sono attori famosi, perché dovrebbe interessare?’. Si facessero qualche domanda: forse loro non sanno quello che piace alla gente. Secondo me in Italia, e non solo in politica, c’è una distanza tra la classe dirigente e la gente”.
Il film si conclude con un messaggio positivo, che non sveliamo. Quale vuole essere il tuo invito ai giovani (e non solo)?
“Di rischiare, di non farsi intrappolare dalla crisi e, se possono, di trasformarla in una opportunità. Mi rendo conto che c’è gente che tutte le mattine va a lavorare per 600 euro al mese, ed è dura trovare delle alternative. Ma chi lavora nel cinema, ad esempio, non deve chiedere permesso a nessuno, perché oggi la tecnologia ce lo permette. Se tutti facessero così, invece di aspettare che produttori e distributori diano milioni di euro, ci sarebbero in giro tante storie della nostra generazione. Spaghetti story ha dimostrato che alle persone non interessa quanto costa un film o se ci sono attori famosi. E che la distribuzione indipendente può funzionare. Se i grandi distributori se ne interessassero, potrebbe essere vantaggioso anche per loro. Non si tratta di fare filantropia o favori. Con i giovani e la cultura si può guadagnare in Italia. Io spero che il film insegni qualcosa”.
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