Il populismo marcia verso l’Europarlamento e le elezioni del 22-25 maggio per la nuova Assemblea di Strasburgo promettono non poche sorprese. Nel momento in cui l’Ue comincia a intravvedere l’uscita dal tunnel dopo sei anni di pesante crisi economica, i movimenti che gridano il loro “no” alla politica, alle istituzioni, all’Europa, alle banche, alla Troika, sono all’apice delle loro fortune: presenti in ogni Paese sotto varie sigle e tendenze politiche, con leader assai diversi tra loro, si preparano a fare il pieno di voti e a portare nelle sedi comunitarie il vento dell’antieuropeismo.
Manca ancora un’analisi seria e approfondita del fenomeno, che certo non si può liquidare con qualche anatema democratico. Le forze che si definiscono esplicitamente “populiste”, o quelle che ne hanno inconfessati tratti, sono espressione di un malcontento rispettabilissimo, che nasce dalla stessa recessione, dalla disoccupazione dilagante, da giovani generazioni che si vedono ogni strada sbarrata… A ciò si aggiungano sintomi non meno complessi, come la globalizzazione che sembra esporre la vecchia Europa (anche in senso demografico) alla competitività delle economie emergenti, le migrazioni, la destrutturazione delle culture tradizionali… Ci si può domandare se ci sia una relazione più o meno diretta tra crisi, revanscismi territoriali, nuovi particolarismi sociali, eclissi dei valori; e se queste dinamiche abbiano o meno una ricaduta politica, laddove si sposano con le più dissonanti forme di nazionalismo e di antieuropeismo e tratti di xenofobia.
Qualche risposta giunge dai più quotati leader “populisti” (etichetta forzatamente semplicistica e che va stretta a molti degli interessati) come la francese Marine Le Pen, a capo del Front National (Fn): “Ben venga l’arrivo dei populisti al Parlamento europeo. Forse qualcuno ha paura del giudizio dei popoli?”, ha recentemente affermato nell’emiciclo Ue. “Tutte le politiche comuni vanno contro gli interessi e la volontà dei popoli. Le elezioni 2014 saranno un referendum: sì alla Francia, no all’Europa”, ha tagliato corto. Da qui si scorge fra l’altro un limite alla futura capacità di alleanze fra gli esponenti populisti ed euroscettici: perché al populismo si unisce spesso l’esaltazione della patria-nazione e dunque ciascuno si sente differente e distante dagli altri.
La geografia europea dei populisti-nazionalisti mostra una diffusione pressoché omogenea: si va dalla stessa Francia (Fn della Le Pen) al Regno Unito (il più noto è il Partito dell’Indipendenza, Ukip, di Nigel Farage), dai Paesi Bassi (Partito della libertà guidato da Geert Wilders) al Belgio (Vlaams Belang). Più a nord il fenomeno ha radici salde in Finlandia (Veri finlandesi), Svezia (Democratici svedesi), Danimarca (Partito del popolo). Si rafforzano anche a est le posizioni anti-Bruxelles: Ungheria (Fidesz, al governo con il premier Orban; Jobbik), Bulgaria (Ataka), Romania (Grande Romania); ma l’elenco non può trascurare Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia. C’è poi una delle patrie del populismo, l’Austria, che anni fa aveva visto sbocciare il Partito della libertà, Fpö, dello scomparso Jörg Haider. Più a sud ci sono l’Italia (Lega nord; Movimento 5 stelle, dell’ideologo Gianroberto Casaleggio e del comico Beppe Grillo) e la Grecia, forse la nazione maggiormente punita dalla crisi, che conta su un populismo “di destra” con il partito Alba Dorata, e uno “di sinistra”, Syriza. Alle elezioni tedesche dello scorso settembre ha invece avuto discreta fortuna il partito contrario alla moneta unica, Alternative für Deutschland. E l’elenco potrebbe continuare.
Se in ogni Paese questi movimenti si esprimono con variegate parole d’ordine, è possibile evidenziare tratti riconoscibili e convergenti: una chiara propensione a valorizzare la sovranità nazionale a detrimento di qualsiasi percorso sovranazionale ed europeo; tanti “no”, no all’euro, a Schengen, all’allargamento Ue, così pure alle migrazioni, all’austerità. Non manca la riproposizione, talvolta equivoca, dei “valori tradizionali”: la terra, la famiglia, la patria e persino la religione cristiana in chiave anti-islam. La demagogia populista – non di rado alimentata da leader nazionali inconcludenti e da mass media pigri nell’analisi sociopolitica – si scaglia dunque contro le istituzioni dell’Unione europea, facile capro espiatorio: un’Europa avvertita come lontana e inefficace, burocratizzata, accusata di legiferare sull’inutile e di attardarsi quando invece occorrerebbe essere solleciti nelle risposte ai bisogni dei cittadini. Accuse magari ingenerose, ma non del tutto prive di fondamenta.
In questo senso i “palazzi” della politica, a Parigi come a Londra, a Bruxelles come a Roma, Berlino o Varsavia, dovrebbero seriamente interrogarsi. Probabilmente a maggio un terzo o più dell’elettorato europeo farà riferimento al Front National, all’Ukip o al Vlaams Belang. I cosiddetti populismi pongono domande serie, ai governi nazionali non meno che alla “casa comune” europea; domande che non possono essere eluse o liquidate con faciloneria. Questioni che sollecitano anche il mondo della cultura, le università, i giornali, le chiese. “I cristiani non sono esenti dal populismo”, ammoniva a fine 2010 un documento della Comece (Commissione degli episcopati della Comunità europea): “Il populismo – aggiungevano i vescovi – è l’opposto dell’idea di integrazione europea” ed “è assolutamente incompatibile con la vocazione universale della Chiesa”. Chiari punti fermi dai quali ripartire.
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