Hanno anticipato la direzione intrapresa dalla Chiesa universale di 18 anni, mettendo alla guida della Congregazione due sacerdoti provenienti dall’America Latina. Prima don Juan Edmundo Vecchi, settimo e ultimo figlio di emiliani emigrati in Argentina. Poi il messicano don Pascual Chávez Villanueva, nato nella città magica di Real de Catorce ed eletto rettore maggiore della Società salesiana di San Giovanni Bosco nel 2002: “Quando ero alle elementari mia madre si ammalò gravemente. Due giorni prima di morire mi disse che aveva sempre pregato Dio per avere un figlio prete. Non so perché ma mi sono sentito di dire: io sono quel prete che hai chiesto”. Incontriamo don Chávez in occasione della presentazione del Bicentenario dalla nascita di don Bosco, che si aprirà ufficialmente il prossimo 16 agosto. “I giovani hanno bisogno di mille cose per vivere ma di una sola per essere felici: sapere e sentire di essere amati”, confida don Chávez mentre osserva sul tavolo basso dello studio un piccolo mappamondo che gira alla luce del Sole: “C’è un mosaico di santità salesiana tra i giovani, gli adulti, i missionari e i consacrati presenti in 132 Paesi dei 5 continenti”.
Quasi 200 anni fa don Bosco invitava ad essere “buoni cristiani e onesti cittadini”…
“È una lezione più che mai valida. Dobbiamo formare persone aperte ai valori della vita, giovani professionisti competenti e cittadini proattivi, impegnati non soltanto nel loro successo ma nella ricerca del bene comune. Non c’è educazione se non c’è comunicazione di valori, trasmissione di saperi e impegno sociale. Tutti i battezzati hanno la stessa dignità sebbene con diverse funzioni all’interno della Chiesa. L’impegno della testimonianza non è di alcuni ma di tutti. Un cristiano è chiamato per vocazione all’apostolato, non per hobby”.
Con l’aumentare del distacco temporale e culturale da don Bosco, avverte la difficoltà di “tornare alle radici” nella Congregazione?
“Don Bosco ha piantato un piccolo seme a Valdocco che è diventato un albero e poi una foresta. Oltre a quella temporale, c’è anche una distanza geografica che comporta differenze di culture, popoli, sensibilità. Quindi deve esserci una fedele inculturazione del carisma, che non si può semplicemente trapiantare. Per superare questo arco di tempo e di spazio, abbiamo scelto di avvicinarci al Bicentenario approfondendo la vita di don Bosco. In questo modo, alla fine del mio rettorato, potrò lasciare ai confratelli le fonti salesiane che dovranno essere tradotte in tutte le lingue. Poi stiamo facendo un grande lavoro di aggiornamento della pedagogia preventiva e di riscoperta della spiritualità, forse la parte meno conosciuta”.
I giovani sono ancora al centro del progetto dei salesiani?
“Abbiamo fatto girare in tutto il mondo le reliquie di don Bosco, registrando un entusiasmo che mai avremmo immaginato. Questo ci ha aiutato a far conoscere meglio don Bosco: un uomo che ha creduto nei giovani quando nessuno lo faceva. E oggi capita lo stesso, i giovani non contano. Dobbiamo ricordare, però, che i giovani non sono tanto il futuro quanto il presente. Per questo è necessario dare loro opportunità di lavoro, formazione, famiglia. Prevenire significa scommettere sulle potenzialità dei giovani”.
Tra breve inizierà anche il Capitolo generale durante il quale verrà eletto il nuovo rettore maggiore…
“Il Capitolo dovrà portare a recuperare l’entusiasmo dei primi salesiani perché il Bicentenario non deve essere un trionfalismo che non serve a nulla o, peggio, una festa nostalgica”.
È più difficile approcciarsi ai giovani di oggi?
“I bisogni dei giovani continuano ad essere sempre gli stessi: sapersi accolti, accompagnati, sapere che l’adulto è disposto a camminare con loro sulla strada della vita. Quel che è cambiato è il contesto sociale. Molti anni fa avevamo una società monolitica con valori condivisi da famiglia, scuola e Stato. Questa concezione non esiste più. Anche l’idea di matrimonio non è la stessa: paradossalmente abbiamo bambini con più genitori che fratelli. Lo Stato pensa che la soluzione migliore sia dare carta di cittadinanza a tutto. E questo è sbagliato”.
Dal Messico all’Italia. Qual è lo stato di salute della Chiesa in Europa?
“La Chiesa europea ha una ricchezza storica, culturale e teologica. È una Chiesa matura. Tutta questa ricchezza può diventare però una sclerosi che non permette di avere la freschezza e il coraggio di reagire. Ma è indubbiamente una Chiesa di una generosità unica: tra i salesiani, ad esempio, si possono trovare missionari italiani in tutto il mondo. Non è una Chiesa in declino ma rispecchia i problemi sociali, a cominciare da quelli demografici: se non ci sono figli per la società, come possono esserci per la Chiesa? E poi sta perdendo rilevanza sociale, sembra quasi che la società prescinda sempre di più da quello che essa pensa”.
E in America Latina?
“È una Chiesa giovane, figlia della dominazione coloniale. Fino al Concilio Vaticano II è stata una Chiesa senza voce, perché i vescovi non avevano coraggio di parlare di fronte ai grandi teologi europei. A partire da Medellin, però, la vitalità ha iniziato a diffondersi e anche la teologia della liberazione, che leggeva la storia dalla parte degli esclusi e ha avuto i suoi problemi con talune derive marxiste, ha innestato un’aria di novità in Europa”.
Poi Aparecida…
“Il capolavoro della Chiesa latinoamericana. Non c’era più la tensione degli anni precedenti ma la sensibilità di chi aveva maturato un cambiamento. Non si rinnegò la scelta per i poveri ma la si lesse in una forma nuova. È senz’altro il prodotto più bello dell’America Latina. Furono tre settimane per me indimenticabili, al termine delle quali si videro i frutti di un lavoro che ha cambiato la nostra storia”.