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Così sono cinquant’anni dallo sbarco più famoso del mondo dopo quelli di Colombo, e della guerra finita da vent’anni, ma per i giovani di allora fu quello il più importante. Le scene che gli psicologi bolleranno come isteria collettiva lo dicono a chiare lettere. Da allora nulla fu più lo stesso. I quattro di Liverpool erano sbarcati nella terra di Elvis e di Little Richard, del rock con la cresta in su, e loro erano i ragazzetti vestiti uguali con i capelli a caschetto e la frangia verso il basso: se le linee hanno un loro significato simbolico voleva dire che non era più questione di supermaschietti che muovevano il bacino dimenandosi su un palco, ma anche di una nuova cultura, che veniva anch’essa dal basso, ma dalle zone industriali della campagna inglese, e portavano con sé una concezione della musica più “politica”. Non è un caso che i Beatles, soprattutto con John Lennon sposarono spesso le battaglie progressiste. Ma le canzoni che vennero dopo fecero la differenza.
Dopo Eleanor Rigby la musica dovette girare pagina e ricominciare da capo. Presley, ma solo anni dopo, dovette tirar fuori “In the ghetto” per poter solo avvicinarsi a quella dimostrazione di conoscenza degli abissi umani. Quando si sciolsero, dopo una veloce agonia fatta di realtà militante che irrompeva sulla scena musicale e imponeva addii dolorosi, avevano però lasciato un testamento stellare. Un testamento che parlava di Eleanor la solitaria, che raccoglieva il riso fuori della chiesa dopo un matrimonio per continuare a sperare, e di padre McKenzie che non poteva aiutarla perché anche lui preda della belva solitaria, quella che ancora non avevamo imparato a chiamare depressione, come se una parola potesse dire il mostro.
Il loro testamento è fatto di quelle figure dolenti, le prime nella musica che cambiava, ma soprattutto di una canzone che Paul, la parte apollinea dei quattro – la dionisiaca era John l’oscuro – compose in una solitaria notte di pioggia: “The long and winding road”, in cui una voce implorava di non rimanere sola e chiedeva di tornare alla lunga e tortuosa strada che non sarebbe mai sparita. In quelle note cantate con un filo di voce c’era già la coscienza della fine, perché, come diceva una canzone di George, “All things must pass”: tutte le cose devono passare.

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