di Maria Chiara Biagioni
Gli svizzeri dicono no all’Europa, chiudono le frontiere e decretano che l’afflusso di stranieri va limitato: è quanto emerge dai risultati di un referendum “contro l’immigrazione di massa” che il “giorno dopo” è su tutte le prime pagine dei quotidiani europei. Con una maggioranza di poco più del 50%, gli svizzeri hanno approvato il quesito promosso dal partito di destra ed antieuropeista dell’Unione democratica di centro che chiede la reintroduzione di tetti massimi e contingenti per l’immigrazione di stranieri. Nei giorni scorsi, sulla questione era intervenuta la Commissione Giustizia e Pace della Conferenza episcopale svizzera con un comunicato molto netto dal titolo “Le persone non sono merce” in cui ribadiva un secco “no” all’iniziativa popolare. “Siamo delusi”, confida subito Thomas Wallimann-Sasaki, presidente di Giustizia e Pace. “Ho l’impressione che i risultati del referendum siano espressione di un sentimento di paura che purtroppo distrugge il senso di solidarietà”.
Perché da sempre la Svizzera ha paura di aprire le frontiere?
“Credo che sia una caratteristica tipica degli svizzeri. Quella di chiudersi in se stessi. Si commette l’errore di credere che si può esistere senza comunicazione, che si può vivere senza essere in relazione con l’altro. Un atteggiamento che forse può funzionare in ambienti rurali e montani, ma i Paesi oggi sono chiamati tutti ad aprirsi al mondo. E gli svizzeri hanno difficoltà con il mondo che entra nelle loro case”.
Gli argomenti dei referendari hanno ampiamente sfondato in Ticino con un 68,2% di sì. Il Ticino è da tempo pressato, alla frontiera meridionale, dall’Italia. I ticinesi hanno paura degli italiani?
“Per gli svizzeri di lingua italiana, la situazione è complessa. In effetti i risultati del referendum in Ticino sono stati diversi rispetto agli altri cantoni perché in Ticino ci si confronta con il problema dei lavoratori italiani che arrivano dalla Lombardia. Non credo che si tratti di paura piuttosto di una preoccupazione per una situazione che si gestisce male a livello di competitività nel mercato del lavoro (con un abbassamento dei salari) e anche a livello di circolazione locale delle persone che, numerosissime, soprattutto nel fine settimana vengono ad acquistare in Svizzera e in particolare a Chiasso”.
“Abbiamo bisogno di più Europa”: la Svizzera si presenta come un Paese sempre più chiuso?
“Gli svizzeri hanno la sfida oggi di condividere la propria esperienza democratica. Siamo consapevoli che abbiamo ricchezze ma poco aperti a donarle in Europa”.
Che cosa ha da dire da questo punto di vista il messaggio cristiano?
“La visione cristiana ci dice che non c’è lo straniero. Che siamo tutti fratelli e sorelle. Potrebbe risultare un linguaggio vecchio. Significa però che c’è una sfida a cui rispondere: non chiudersi in se stessi ma condividere le ricchezze e i problemi con gli altri. I risultati di questo referendum ci chiedono il coraggio di una solidarietà, soprattutto verso gli svantaggiati e i poveri. Ci dice di non aver paura”.
È il messaggio di Papa Francesco? È seguito in Svizzera?
“La posizione del Papa è una grande sfida per la nostra Chiesa e il nostro Paese. Un Paese ricco ma che rischia di chiudersi sempre di più al mondo e all’Europa. Le parole del Papa ci indicano uno stile diverso di posizionarsi rispetto al mondo. Una Chiesa che sa uscire. Si tratta allora di capire come rendere pubblico il messaggio di una solidarietà cristiana che non è guidata dalla paura ma dalla speranza che si apre all’altro”.
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