Di Nicola Salvagnin
Ecco il frutto più avvelenato della crisi, quello che – messo nel cesto – rischia di far marcire tutti gli altri: la valanga di crediti bancari che, per una ragione o per l’altra, si avviano a diventare “inesigibili”. Cioè a sparire, inghiottendo una fetta del mondo finanziario italiano. E se questo si ammala gravemente, il contagio non risparmierà nessuno.
Al netto delle coperture di bilancio, sono poco più di 70 i miliardi di euro che esistono solo sulla carta, ma che sono in realtà già “bruciati”. Ce ne sono altrettanti in bilico, ma il buco vero è il primo, ed è enorme se lo convertiamo in lire: 140mila miliardi… Ma come è possibile – direte – che le banche non riescano a far rientrare quei capitali prestati, se per chiedere un misero mutuo immobiliare ci fanno ballare una sfinente balalaika?
Infatti sono il frutto di anni passati, del primo decennio di questo secolo: quello della follia che stiamo tuttora pagando. Erano gli anni dei colossali prestiti ad immobiliaristi senza alcuna garanzia; dei mutui dati a valori superiori degli stessi immobili; dei finanziamenti a realtà industriali o finanziarie che stavano in piedi su montagne di debiti. Anni di operazioni dissennate, di espansioni territoriali a suon di fusioni e di nuovi sportelli aperti ovunque; anni di stock option più che generose ad amministratori delegati che avevano come unico compito quello di spremere più uova d’oro possibile alla gallina bancaria, per la felicità degli azionisti e, soprattutto, la loro.
In pochi si sono arricchiti enormemente; tutti noi oggi rischiamo di pagarne il conto. Fateci caso: confrontate le dirigenze bancarie del 2005 con quelle di oggi. Sono praticamente saltate tutte, anche se con laute liquidazioni.
Ci rimangono le ceneri di quei soldi dissennatamente prestati. Ceneri che ammorbano l’economia italiana e che paralizzano il sistema finanziario. Prima venivano nascoste sotto il tappeto dei bilanci; negli ultimi anni la Bce ha costretto tutti a fare “pulizia”, dapprima chiedendo una maggiore patrimonializzazione, quindi spingendo per un’operazione radicale di verità sui bilanci: quanti sono i crediti ormai sfumati? E quali le coperture?
Le banche italiane hanno dovuto sollevare il tappeto ed iniziare a smaltire quelle ceneri. Sono stati chiesti soldi agli azionisti per rendere più solidi i patrimoni, ora si ritorna dagli stessi azionisti – o da nuovi subentranti – per coprire i buchi di bilancio.
Ma i portafogli degli investitori vogliono soddisfazioni, non sacrifici, altrimenti se ne stanno ben chiusi. E la necessità di rendere più saldi i conti ha in pratica paralizzato l’erogazione del credito: tanto generosa prima, tanto avara oggi. L’economia italiana avrebbe bisogno dei soldi delle banche; le banche italiane chiedono soldi all’economia: un cortocircuito paralizzante.
Si stanno quindi studiando rimedi che “sturino” il lavandino chiuso, così come è già accaduto in altri Paesi. Escluso – ma non per Montepaschi – l’intervento dello Stato (che non ha un euro), si sta ragionando o su una “bad bank” che raccolga i crediti “incagliati” del sistema, o sulla cartolarizzazione degli stessi, o sulla vendita a società specializzate nel recupero. Con effetti tutti positivi: si recupererebbe una parte di un tutto che rischia di diventare niente; si libererebbero risorse bloccate a garantire la copertura di quei crediti; se ne avrebbero di aggiuntive senza chiederle agli azionisti o al mercato.
L’importante è che non le chiedano alle stremate tasche dei contribuenti; piuttosto si vada a stanare quei “lupi di Piazza Affari” che hanno sbranato la solidità di banche che sembravano saldissime. Lo sono tuttora, licenziando però migliaia di dipendenti per “tagliare i costi”, ed erogando prestiti solo a chi i soldi ce li ha già.