In un’epoca in cui i simboli religiosi tendono a essere celati e cancellati a fare notizia non è l’annosa questione se sia giusto che le donne di fede islamica indossino il velo in contesti pubblici, ma la testimonianza che Chahida ha dato spontaneamente, seguendo con lealtà, da un lato, la sua passione e, dall’altro, le sue convinzioni religiose senza temere di mostrare ciò in cui crede nel mondo in cui vive.
La storia di questa giovane, appartenente alla cosiddetta Seconda generazione posta a metà del guado tra la cultura dei genitori e del Paese di origine e quella dei coetanei e del Paese in cui è nata e cresciuta, sembra essere una storia d’integrazione e tradizione capace di smentire tanti stereotipi: una ragazza appassionata di calcio non è di certo la norma e ancora meno lo è trovare un adolescente interessato non a segnare il gol decisivo, ma a far rispettare le regole del gioco. Senza considerare che a trasmettere a Chahida l’amore per il pallone non è stato il padre bensì la madre, calciatrice in Marocco e pronta ad accompagnarla anche domenica dagli spalti dell’oratorio San Luigi di Pizzighettone. “Io sostengo mia figlia – ha detto ai cronisti – nella sua scelta di fare l’arbitro, perché è una cosa bellissima essere giudici. E per essere giudici bisogna essere leali”. Come Chahida, leale verso le proprie convinzioni e verso le proprie passioni.