Di Maria Chiara Biagioni
“Non è tanto il fatto che sparano sulla gente. È quello che fanno sulle persone che colpisce. Per esempio una persona è stata colpita con un martello. L’hanno presa per la testa e l’hanno colpita più volte. A un’altra hanno cucito la bocca con ago e filo. Fanno cose inimmaginabili”. Ma chi le fa? I berkut? “Sì, la polizia”. È una testimonianza drammatica quella che padre Andriy Zelinskyy racconta direttamente da Kiev, mentre si sta dirigendo verso il monastero di san Michele, una delle più importanti e più antiche chiese greco-cattoliche di Ucraina nella capitale Kiev. Sta di fronte alla sede centrale di Polizia a Kiev e vicino al ministero degli Esteri. È qui che stanno portando la maggior parte dei feriti. Preferiscono essere curati nelle chiese perché – come aveva già denunciato qualche giorno fa Sua Beatitudine Sviatoslav Schevchuk al presidente Viktor Yanukovych – la gente ha paura di andare negli ospedali di Kiev a chiedere aiuto perché gli organismi preposti all’applicazione della legge considerano le lesioni subite come prova di un crimine. “Sì – conferma padre Andriy – è un pericolo perché possono essere presi dalla polizia e portati via”. E così le chiese a Kiev sono tutte aperte e i medici hanno organizzato veri e propri ospedali per i manifestanti. Forse è questa la ragione per cui in queste ore le chiese sono prese di mira dalle forze di polizia. È successo, per esempio, alla chiesa di sant’Alessandro che si trova proprio vicino a piazza Indipendenza dove la polizia è stata per ore davanti all’ingresso.
Una brutta mattinata di sangue. “Si sparava dappertutto – testimonia padre Andriy -. Il numero ufficiale delle vittime comunicato dal ministero della Sanità parlava di 28 persone morte e centinaia di feriti. Ma non corrisponde alla verità: il numero dei feriti e delle vittime è di gran lunga superiore. Durante la notte c’è stato un pesante spargimento di sangue. La gente guardava tutto in diretta live dal computer e vedeva incredula come si uccideva il popolo di Maidan”. Ormai la situazione è precipitata e la manifestazione pro-Europa cominciata il 22 novembre scorso si è drammaticamente trasformata in “una guerra civile nel cuore dell’Europa. Tante città si sono ribellate, hanno occupato gli edifici pubblici. Hanno sparato fuori da Kiev”. Spaventa soprattutto il fatto che “ci sono bande assoldate dal governo”. Padre Andriy parla di balordi che vengono assoldati dalla polizia. “Loro seguono e coperti dalla polizia fanno cose crudeli. È come vedere ‘il Signore degli anelli’ ma è tutto vero, è la lotta tra il bene e il male”.
“C’è tanta speranza tra la gente”. Dice il sacerdote. E la speranza è tutta riposta nell’Europa per la quale loro combattono. “Si spera veramente che l’Europa possa agire. Si attendono le decisioni dei ministri degli Esteri a Bruxelles”. Padre Andriy ci tiene a far sapere soprattutto in Europa che “quanto il nostro ministro degli Affari Esteri sta dicendo, non corrisponde alla verità per niente. Si dicono tante bugie”. La verità è che “si stanno commettendo crimini contro l’umanità. Bisogna dirlo. Gridarlo. Ciò che fanno non sono casi isolati. Ma violazioni sistematiche. Vogliamo far sapere all’Europa cosa sta realmente succedendo qua. Vogliono presentare la loro azione come una lotta di antiterrorismo. Possono fare e dire tutto ciò che vogliono, ma lo stanno dicendo e facendo contro un popolo”.
Trentamila in piazza a Kiev. “È tutta gente che non ha nulla da perdere. Hanno visto i loro amici, i loro parenti morire”. “La polizia – prosegue nel racconto una fonte della Chiesa greco-cattolica che preferisce rimanere nell’anonimato – cerca di fermare gli ucraini che vengono dalle altre città a Kiev per dare l’appoggio. I cittadini di Kiev portano cibo, medicine e vestiti al campo centrale delle proteste. Gli anziani stanno raccogliendo pietre per scagliarle contro la polizia. Le proteste sono enormi, in tutto il Paese. Le Chiese nazionali, finora anch’esse divise, appaiano più unite del previsto e sono tutte in piazza, assieme ai manifestanti, per mediare nei momenti di maggior tensione. Le Chiese hanno mostrato un atteggiamento comune: hanno lavorato e stanno lavorando insieme per tentare d’indirizzare in senso costruttivo e pacifico la protesta”. “Continuano a invitare al dialogo, a sostenere il diritto alla protesta e chiedono allo Stato di farsi carico delle proprie responsabilità. Il dialogo è una chiave che apre le porte, che abbassa le tensioni e consente di trovare accordi e consensi tra tutti, che certamente ci sono. Ciò significa sentirsi ‘tutti responsabili di tutti’, come esorta il Papa emerito, uscire dalle visioni settoriali, per quanto importanti, per condividere il più possibile i problemi e le aspettative di tutti”.