Si ritrovarono dietro il palco, con gli occhi sudati e le mani in tasca, tutti dicevano “io sono stato suo padre”, purché lo spettacolo non finisca.
Certo che fa un certo effetto, e che effetto, capire che è vero. Che non è un sogno, che Cat Stevens, ora Yusuf Islam, ha cantato a Sanremo.
Non in un concerto nella bella città dei fiori, magari in piazza, ma proprio al Festival, nel – per alcuni – famigerato teatro Ariston.
È caduto un mito alternativo, del tipo quello che a Sanremo non ci metterà mai piede, e bisogna dire che non è stato il solo, se si pensa che anche il duro e crudo Springsteen ci ha cantato una canzone, anche in questo caso lui e la chitarra, senza intervista rituale o pompa magna, con una canzone di denuncia sociale.
Non possiamo comprendere nella lista delle sorprese estreme Lucio Battisti e Lucio Dalla, per quella loro vena nazional-popolare, sia detto in senso positivo. Il lettore avrà capito che la presenza di Baglioni, di Arbore, di Paoli, della grande Franca Valeri, dopo il trauma Stevens non ha causato grosse sorprese, trattandosi di animali da palcoscenico, pur sempre inseriti in un contesto che nel media televisivo ha avuto un punto di forza. Anche perché l’altro personaggio non allineato, Frankie hi-nrg, uno dei primi rapper e pionieri dell’hip hop, aveva già varcata la frontiera “nemica” nel 2008. Ma il grande cantautore britannico nelle cui vene scorre sangue greco-cipriota e svedese non è stato l’unico punto di rottura con la tradizione e con un modo di pensare che – dobbiamo ammetterlo – sembra superato dai tempi. Anche se alcuni pensatori avrebbero detto che è un trucco del sistema per ingoiare ogni antagonismo. Il che ci porterebbe troppo lontano.
Ci sono stati il ricordo di Peppino Impastato proposto da Luca Zingaretti, o la celebrazione di una bellezza diversa da parte della Littizzetto, che ha sfiorato corde non legate immediatamente all’emotività, come la riduzione dei posti di sostegno nelle scuole, con il relativo abbandono di programmi d’integrazione.
Il rischio è che però il discorso rimanga fine a se stesso, anche perché non è tanto una questione di bellezza, ma d’interiorità, di rispetto e di amore, e che divenga il contentino offerto all’attualità (e qui la falsa interruzione da parte del gruppo degli Shai Fishman è sembrata francamente un autogol, così come l’imbarazzante – e consentitecelo, teatralmente buonista – “pacificazione” con l’escluso Sinigallia e la sua dichiarazione di non voler fare ricorso) purché, come cantava De Gregori, lo spettacolo non finisca. Anche perché quella tv da cui è partito il messaggio è ancora dipendente dal vecchio concetto di bellezza, quello della donna tutta curve, bella di fuori, appetibile. E perché non è politicamente corretto risalire alla fonte, che porterebbe oltre il “volemose bene”. Visto che la concezione di bellezza sostenuta dalla presentatrice ha radici giudaico-cristiane, mentre nella Roma classica, la diversità era una condanna a morte. I bambini non desiderati venivano esposti, come quelli malati o nati con qualche problema. Le bambine avevano una possibilità molto più alta di essere eliminate, con una decisione presa esclusivamente dal pater familias.
In ambito cristiano la situazione si rovescia: la bellezza non è nell’attrazione di particolari anatomici o nella perfezione corporea. L’amore va oltre l’aspetto, perché rispecchiamento di un Dio che se ha creato la materia, nello stesso tempo la trascende. Appare lo spirito. La cosa buffa è che poi la concezione cristiana è stata a sua volta attaccata con l’accusa ridicola di odiare il corpo, confondendola con una religione dualistica, quella càtara, che vedeva il male nella materia. Ma l’andare alla verità avrebbe significato aprire una breccia nel politicamente corretto, e parlare di persecuzioni, di massacri per motivi religiosi, di limitazione della libertà di fede, del rischio di prosciugamento della fonte, insomma: ma questo non si può, evidentemente.