È lecito pensare che ci sia una contraddizione tra la legalizzazione del gioco d’azzardo e la necessità di tutela e cura per chi, abusandone, si ammalasse di ludopatia?
Sì, perché da noi sono lecite entrambe le cose, con un abnorme ricorso al gioco da parte degli italiani (ciascuno dei quali punta in media oltre 1.600 euro l’anno!) e con la stima che ci siano circa 790mila ammalati problematici di gioco compulsivo. Il fatto è che da noi l’amministrazione statale non può fare a meno degli introiti piuttosto considerevoli che derivano dai prelievi fiscali sui quasi 100 miliardi giocati su lotto, superenalotto, “macchinette” varie, lotterie e giochi on-line (lo Stato incassa circa 11 miliardi all’anno). Quindi, si tratta di capire come sia avvenuto questo passaggio per il quale una pratica in sé problematica e aleatoria, quale è appunto l’“azzardo”, sia stata dapprima sopportata e contrastata e poi, pian piano, assunta tra le attività rientranti sotto il vigile e “interessato” controllo pubblico.
Salvo poi, come si è notato in questi ultimi anni, dover far fronte a un piccolo esercito di giocatori compulsivi che mandano in rovina i propri bilanci familiari, entrano in situazioni patologiche di ansia e depressione per le perdite subite, qualche volta delinquono per procurarsi ulteriore denaro da giocare. Insomma, un circolo diabolico – così lo definiscono gli psichiatri – dove per venirne fuori vivi occorre una grande volontà, cure da cavallo, controllo a vista da parte di parenti, amici e sanitari, e anche un contesto sociale e ambientale favorevole a recuperare il giocatore incallito.
Un fatto di “cultura”? Fino al 1992 il gioco d’azzardo in Italia è sempre stato regolato dal monopolio pubblico, che ha cercato di “contenere” la sua presenza, punendo dove l’illegalità emergeva e diveniva troppo evidente (basti pensare alle varie scommesse sportive clandestine, al “Totonero” e consimili). Negli anni Novanta è iniziata la metamorfosi, con il moltiplicarsi dei giochi ufficiali, quali Lotto, poi SuperEnalotto e poi il diluvio di lotterie istantanee, “Gratta e Vinci”, “Win for life” e così via. Negli ultimi 15 anni il fenomeno ha segnato in maniera molto massiccia la cultura popolare italiana, investendo circa la metà della popolazione (i giocatori abituali sono circa 30 milioni). Col decreto Bersani-Visco del 2006 si amplia la platea dei concessionari: dai soli Sisal, Snai e Lottomatica, che avevano in gestione i giochi più diffusi oggi siamo arrivati a una decina di società che evidentemente continuano a fare profitti, nonostante la crisi degli ultimi tempi, o forse proprio per questo. I prelievi sui giochi divengono una sorta di “bancomat” a disposizione dello Stato per utilizzi vari: così nel 2009 le “poker room” online vengono legalizzate per raccogliere fondi per il terremoto d’Abruzzo. E in questi ultimi anni poi si è avuto un vero boom del web gaming (giochi di carte, di sorte) che hanno il pregio di restituire ai vincitori percentuali molto alte del giocato, fino a quasi il 97%, col difetto però di lasciare ai gestori e allo Stato una quota molto piccola (per lo Stato anzi è proprio minuscola, al di sotto dello 0,5%). Ma almeno qualcuno vince davvero, e non poco.
Leggi regionali per i “malati di gioco”. Vediamo ora cosa succede nelle Regioni dove, per le evidenti emergenze di malati di gioco (ludopatici), si è deciso di fare qualcosa. Ecco alcuni esempi. A Bolzano (provincia autonoma con statuto regionale) la legge del 2010 e poi i provvedimenti del 2013 prevedono un piano quinquennale contro le “dipendenze” con prevenzione, campagne di sensibilizzazione, formazione dei gestori di sale gioco, sostegno a gruppi di auto-aiuto per i giocatori patologici e loro familiari. Le sale gioco non possono essere ubicate a meno di 300 metri da scuole, centri giovanili, centri sanitari e consimili. Anche a Trento la provincia ha varato analoghe norme, così come in Liguria. In Emilia-Romagna lo scorso anno un’apposita legge oltre alla tutela e cura dei malati di gioco, prevede il rilascio di un “marchio” per i gestori di esercizi che rinunciano alle macchinette. La Toscana fissa a 500 metri la distanza minima delle sale slot da luoghi giovanili, offre contributi agli esercizi che rimuoveranno le macchinette, punisce con una Irap più alta chi le mantiene e promuove corsi per prevenire e guarire dal gioco patologico. Terapie e recupero dei giocatori sono previste anche nel Lazio, mentre in Lombardia sono offerti sgravi fiscali per chi rinuncia alle macchinette. L’Abruzzo conferma i 300 metri di distanza da oratori e scuole per le sale gioco, mentre la Puglia punta anche sul trattamento e cura dei ludopatici.
Il Veneto sta discutendo una legge in cui oltre a provvedimenti simili a quelli delle altre regioni ci sono anche criteri di favore per l’assegnazione di provvidenze per coloro che rinunceranno alle “slot machine”. L’attesa delle Regioni è che si giunga presto al varo di una norma nazionale che non solo unifichi i diversi provvedimenti sin qui assunti autonomamente dalle Regioni stesse, ma offra criteri più ampi per una azione sanitaria di vasto respiro che sembra, ormai, del tutto necessaria.