Il credente e l’uomo “secolarizzato” non rispecchiano più, tout-court, l’interno e l’esterno della comunità ecclesiale, ma si intersecano nel suo territorio e sui suoi confini dando vita ad una sorta di “genere misto”. Parte da questo assunto il convegno di studio “Una fede per tutti? Forma cristiana e forma secolare”, che la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale promuove il 25 e 26 febbraio a Milano. Ne abbiamo parlato con monsignor Pierangelo Sequeri, preside della Facoltà e relatore del convegno.
Come nasce l’idea di una riflessione a più voci su questo tema?
“La fede cristiana non crea di per sé preclusioni ed è accessibile a tutti. Occorre però interrogarsi sul piano pratico rigettando due estremi: la fede ‘fai da te’, e il ‘fondamentalismo’ di un’idea di fede imposta da una minoranza militante che stabilisce regole cui doversi adeguare. Si crede in Cristo; non imitando uno stile di vita o un sistema ideologico. La Chiesa non ha mai preteso di trasformare la maggioranza del popolo di Dio in apostoli; ha tentato piuttosto di individuare una ‘serietà della fede’ che fosse compatibile con la condizione umana ‘normale’ di chi lavora, ha famiglia, vive nel proprio tempo”.
Il popolo di Dio, dunque “le folle” evangeliche…
“Sì. Lo spunto per l’articolazione del convegno è il modulo evangelico Gesù – i discepoli – la folla. Di questo terzo elemento forse ci siamo un po’ dimenticati: eppure proprio dalla folla emergono il centurione, Zaccheo, la samaritana; figure diverse dai discepoli, ma alle quali Cristo ha dato credito”.
Da qui nasce la questione di “una fede per tutti”…
“Vogliamo interrogarci sulle caratteristiche della proposta di una fede che si rivolge a tutti e non mira a selezionare una vocazione speciale. Qual è la sua forma concreta, quale stile di vita le corrisponde. La pastorale è un po’ imbarazzata davanti ad una domanda che si pone in termini nuovi: evitare di fare del cristianesimo una setta di duri e puri e, al tempo stesso, non dilapidarlo in una pluralità di forme di religiosità su misura”.
Come procedere?
“La forma ‘secolare’ non può essere considerata a priori alternativa alla forma cristiana: occorre trovare il punto di connessione. Al padre di famiglia che ha quattro figli e si svena per crescerli e trasmettere loro i principi cristiani non si può chiedere di dedicarsi alla Chiesa come chi ha l’opportunità di collaborare con il ministero. Bisogna definire con chiarezza ciò che è essenziale alla fede e avere il coraggio di dirlo, dimostrandone la compatibilità con i modi in cui oggi l’identità e l’esistenza umana si realizzano”.
Quali dunque i capisaldi?
“Per me la partecipazione all’eucaristia domenicale non ha esonero, perché è l’incontro con il Signore. Non ha esonero neppure la qualità morale dell’esistenza: una vita secondo i comandamenti e la Parola del Signore non è cosa da poco perché il cristianesimo richiede il rigore dell’ethos. Ineludibile anche la preghiera quotidiana come colloquio intimo con Dio. Non dobbiamo guardare a ciò che le persone non fanno, ma apprezzare quello che riescono a fare. Se il parroco vuole bene alla sua comunità, trasmette gratitudine per le forme cristiane ‘possibili’ alle persone; la comunità rimane viva e restituisce questo senso di appartenenza al territorio. Papa Francesco si rivolge con questo spirito ai fedeli, sapendo bene che sono folla, e quindi non tutti stinchi di apostolo, ma apprezza come teologicamente rilevante il fatto che si radunino per ascoltare la parola di Dio”.
Quale la sfida per la Chiesa?
“Fare oggetto di un discernimento serio e affettuoso la ‘domanda’ che la comunità ‘civile’ secolarizzata rivolge implicitamente alla comunità dei ‘discepoli’. Una simpatia e un attaccamento per la Chiesa che si esprimono nei momenti difficili. Lo si è visto con la rinuncia di Papa Benedetto: il ‘popolo’ ha compreso il suo gesto difficilissimo e lo ha amato e rispettato prima degli ‘esperti’. Penso che la comunità cristiana sia più ampia di ciò che qualche volta ci intristiamo a pensare. Nello scarto tra immagine ideale della fede e sensazione di dover mendicare un po’ di clientela, esiste uno spazio che si deve pensare teologicamente e si può occupare pastoralmente”.
Con riferimento ai primi risultati del questionario inviato alle Conferenze episcopali in vista del Sinodo sulla famiglia, secondo lei c’è da aspettarsi qualche apertura da Papa Francesco in materia di divorziati risposati, contraccezione, etc?
“Pur facendo i conti con situazioni nuove, la dottrina rimane e non può cambiare. La Chiesa considera serio il tema della famiglia: mettendo in campo attraverso il Sinodo le sue risorse di discernimento e di pronunciamento più alte, certamente non si limiterà a ribadire la dottrina ma ne praticherà una sorta di ‘filtraggio’ per ristabilirne l’integrità in modo realistico, ossia collegabile a situazioni che il linguaggio tradizionale non poteva contemplare. La Chiesa ha fatto capire che in questa rielaborazione/ricomprensione del suo insegnamento sarà molto più presente la sensibilità per gli aspetti che riguardano la ‘misericordia’, il sostegno, la comprensione della differenza tra situazioni in cui semplicemente si produce una colpa e situazioni, invece, in cui si è soprattutto patito un danno. Un ‘filtraggio’ che sarà eseguito non solo sul filo del diritto canonico, ma anche sul filo della pastorale ecclesiale”.