Il 17 dicembre 2013 Papa Francesco ha esteso alla Chiesa universale il culto liturgico in onore di Pietro Favre, che, a detta dello stesso Pontefice, è la figura di gesuita che gli è più cara, dopo ovviamente Ignazio di Loyola. Ma chi è Pietro Favre? Per conoscere questo “nuovo santo” può essere utile la lettura del volume “Pietro Favre. Servitore della consolazione” curato dal Direttore de “La Civiltà Cattolca”, padre Antonio Spadaro ed edito per i tipi dell’Ancora.
Il testo raccoglie un insieme di saggi comparsi su “La Civiltà Cattolica” che possono aiutare a delineare il ritratto del “santo di Papa Francesco”. Il primo contributo scritto nel 1979 da padre Giuseppe Mellinato è di taglio biografico e funge da introduzione agli altri che invece si soffermano su particolari carismi di Favre.
Scopriamo allora che Pietro Favre è nato a Villaret, in Savoia, il 13 aprile 1506 in una modesta famiglia di contadini. All’età di 19 anni si recò a studiare alla Sorbona di Parigi, dove incontrò Ignazio di Loyola che era più grande di lui di una ventina di anni. Insieme dimorarono presso il Collegio Santa Barbara con Francesco Saverio.
Capiamo subito quindi che Favre è uno dei primi amici di Ignazio e dunque avvicinarlo significa comprendere qualcosa in più su come è nata la Compagnia di Gesù. Egli non aveva le idee chiare su quale fosse la propria vocazione, fu così che nel gennaio del 1534 iniziò gli esercizi spirituali, la pratica di discernimento ideata proprio da Ignazio, che lo porteranno nel maggio dello stesso anno a diventare prete.
Egli dunque è il primo sacerdote della Compagnia di Gesù, prima ancora dello stesso Ignazio! Fu proprio Favre a celebrare la messa quel 15 agosto 1534 quando Ignazio e altri cinque suoi amici alle pendici di Montmartre fecero voto di unirsi in quello che sarebbe divenuto uno dei più importanti ordini religiosi della Riforma Cattolica.
È proprio nel contesto della desiderio di riforma che Favre svolge il suo apostolato. Egli, secondo le parole dei padri Coupeau e Zollner, “poteva testimoniare che la diffusione del protestantesimo era dovuta a una crisi morale e spirituale in seno alla Chiesa cattolica. Per il fatto che i cattolici dei paesi tedeschi avevano perso il retto sentire, era andata persa anche la retta fede. Per poter riacquistare la retta fede, la strategia di Favre tendeva a ricondurre i fedeli al retto sentire” (p. 72).
E quale metodologia seguiva Favre? Sono ancora i due gesuiti a spiegarcelo: “Anziché esibirsi pubblicamente in dispute teologiche o polemizzare sulle condanne reciproche, con incontri personali voleva convincere i protestanti di quanto gli stesse a cuore la riforma spirituale e quanto fosse necessaria l’unità di tutta la Chiesa” (ibidem).
Troviamo in queste parole una grande assonanza con la sensibilità spirituale di Papa Francesco. Il Pontefice infatti, proprio come il santo che ha tanto a cuore, predilige la cosiddetta “cultura dell’incontro”: al centro dei suoi interessi non c’è l’esposizione di una dottrina, ma il desiderio di farsi prossimo ad ogni uomo.
Lo vediamo nella sua gestualità, nel suo chinarsi verso le persone più sofferenti, nei suoi non rari contatti telefonici: in ognuno di questi suoi gesti possiamo scorgere il desiderio di incontrare direttamente le persone alle quali vuole fare sentire l’abbraccio di Cristo.
Papa Francesco, come Favre, vive in un tempo di riforma, che è anzitutto una sempre maggiore adesione del cuore a Cristo prima che una serie di cambiamenti di strutture. La riforma della Chiesa è qualcosa di sostanzialmente molto diverso da quella che può essere la riforma di uno stato: essa passa prima di tutto attraverso le persone.
Per tutti questi motivi crediamo che Papa Francesco si ispiri e senta così vicino il primo sacerdote della Compagnia di Gesù.