Già nel 2011 una trentina di volontari nepalesi aveva tentato di ripulire la cima per antonomasia, raccogliendo 8 tonnellate di rifiuti a fronte delle oltre 50 che si stimano siano sparse un po’ dappertutto lungo l’ultima fetta degli 8.848 metri di altezza dell’Everest. La “Madre sacra”, violata per la prima volta nel 1953 da sir Edmund Hillary e dallo sherpa Tenzing Norgay, da quel lontano 29 maggio ha ricevuto la visita di circa 7mila persone che, colpite dalla bellezza del luogo e dall’emozione di trovarsi in uno dei rari luoghi incontaminati della terra, hanno “dimenticato” di riportare con sé fornelletti, scarponi e così via.
Le autorità nepalesi sperano di porre un freno all’inquinamento dell’Everest, anche se taluni obiettano che 4mila dollari a fronte di una spedizione che ne costa circa 100mila non siano un valido deterrente e che l’abbassamento della tassa per la scalata da 25mila a 11mila dollari, deciso di recente, farà aumentare il numero di alpinisti (turisti?) pronti a tentare la scalata tra neve e sacchetti di plastica. Il rischio è che perso il timore reverenziale di camminare su un suolo vergine, esaurito il fascino di sentirsi di troppo e allo stesso tempo parte di qualcosa di immenso, qualcuno inizierà a pensare alla costruzione di bungalow o baite. Forse ci sono luoghi nei quali sarebbe meglio non piantare alcuna bandiera. Né lasciare immondizia.