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Settant’anni fa “il Ribelle”: voce di libertà

Angelo Paoluzi
È stato il frutto più importante della stampa clandestina nella Resistenza, il foglio che faceva innervosire gli occupanti tedeschi e i loro complici fascisti. Si chiamava “il Ribelle”, voce dichiaratamente cattolica che non rifiutava la collaborazione degli altri elementi del Comitato di Liberazione Alta Italia – da cui era sostenuto -, purché non si inneggiasse alla violenza in sé, alla vendetta e all’odio contro il nemico, ma si tenessero ferme le ragioni morali dell’opposizione all’invasore.
Se ne pubblicarono ventisei numeri, diffusi in tutta l’Italia del Nord, e accanto a essi dodici “quaderni” monografici. Uscivano quasi regolarmente – una specie di miracolo, considerando le difficoltà imposte dalla situazione -, fra le dieci e le quindicimila copie, stampate prima a Milano, poi a Lecco, ma datate da Brescia. Per motivi sia di depistaggio, sia di fondazione, in quanto “il Ribelle” era la prosecuzione di un foglio ciclostilato, “Brescia Libera”, nato in quella città nel novembre del 1943.
La trasformazione avvenne il 5 marzo 1944 (ne ricorrono in questi giorni i settant’anni), quando diventò giornale a stampa, tenacemente compilato da un gruppo di patrioti, alcuni dei quali furono arrestati: Carlo Bianchi, presidente della Fuci milanese, fucilato a Fossoli il 12 luglio 1944, Franco Rovida, Rolando Petrini e Luigi Monti scomparsi a Mauthausen all’inizio del 1945: e Teresio Olivelli che morirà nel Lager di Hersbruck il 12 gennaio 1945, a causa di percosse infertegli per aver soccorso e difeso un compagno di prigionia.
L’anniversario dalla fondazione de “il Ribelle” restituisce la memoria di un periodo drammatico per il nostro Paese quando – dal settembre 1943 all’aprile 1945 – la Resistenza popolare impegnò una decina di divisioni dell’invasore tedesco e la totalità delle truppe del regime fascista di Salò, al servizio dell’occupante. Ricorda, inoltre, il contributo culturale e di pensiero che alla liberazione è stato offerto dal mondo cattolico, dai suoi caduti, dalla comunità dei credenti che sosteneva i partigiani, dall’opera di quanti soccorrevano i perseguitati. Con figure esemplari di testimoni, come appunto Teresio Olivelli. Non soltanto combattente ma anche “firma” de “il Ribelle”, al quale ha collaborato nei primi mesi con scritti e pagine che ben rappresentano l’opposizione dei cristiani alle tirannie.
Olivelli morirà quindici giorni dopo aver portato conforto, alla vigilia di Natale del 1944, a un compagno gravemente infermo, Odoardo Focherini, spirato quella stessa sera. Ne raccolse le ultime parole e fece in tempo a comunicarle a un altro prigioniero, Salvatore Becciu, che a sua volta le riferì, dopo la fine della guerra, alla famiglia di Focherini. Che, in una lettera alla famiglia dalla prigionia aveva affermato: “So che morire per una giusta causa è nobile. Mi auguro solo che le nostre sofferenze non siano state inutili e che finalmente la giustizia e la pace trionfino”.
Di Focherini e di Olivelli non restano reliquie fisiche: i loro corpi, com’era costume nei Lager, furono inceneriti. Rimane in compenso la commovente icona dell’incontro, in un luogo di disperazione come un campo di concentramento, di due credenti ai quali la Chiesa, in seguito, riconoscerà il titolo, per il primo, di beato, per il secondo di Servo di Dio (con un processo di beatificazione in corso).
Olivelli fu arrestato nell’aprile del 1944. Aveva fatto in tempo a improntare i primi due numeri de “il Ribelle” scrivendo, sotto lo pseudonimo di Cursor, una sorta di manifesto del combattente cristiano: “Ribelli: così ci chiamano, così siamo, così ci vogliamo – scrive -. Il loro disprezzo è la nostra esaltazione. Il loro ‘onorato’ servaggio alla legalità straniera fermenta l’aspro sapore della nostra libertà. La loro sospettosa complice viltà conforta la nostra fortezza. Siamo dei ribelli: la nostra è anzitutto una rivolta morale”. “Lottiamo – aggiunge ancora – per una più vasta e fraterna solidarietà degli spiriti e del lavoro, nei popoli e fra i popoli, anche quando le scadenze appaiono lontane e i meno tenaci si afflosciano: a denti stretti anche se il successo immediato non conforta il teatro degli uomini, perché siamo consapevoli che la vitalità d’Italia risiede nella nostra costanza, nella nostra volontà di resurrezione, di combattimento, nel nostro amore”.
“il Ribelle” circolava fra i partigiani: una copia ne veniva mandata regolarmente (quasi una beffa) al commissario capo Ugo Osteria, che la trasmetteva ai comandi tedeschi. Se alcuni fra i redattori furono arrestati, torturati e uccisi, si trovavano sempre altri per sostituirli. Nello stesso tempo, con i citati “quaderni” si cercava di sistemare in modo razionale una visione politica del futuro, come con lo “Schema di discussione di un programma ricostruttivo ad ispirazione cristiana”, certamente dovuto a Olivelli e dal quale anche oggi si potrebbe forse imparare qualche cosa per la gestione della politica.
Resta, alla fine, un documento che fa parte ormai della coscienza morale dell’umanità, “La preghiera del ribelle”. “Signore che fra gli uomini drizzasti la Tua Croce – così inizia quel celebre testo -, segno di contraddizione, che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito contro le perfidie e gli interessi dominanti, la sordità inerte della massa, a noi oppressi da un giogo numeroso e crudele che in noi e prima di noi ha calpestato Te fonte di libere vite, dà la forza della ribellione…”. Per concludere: “Dio della pace e degli eserciti, Signore, che porti la spada e la gioia, ascolta la preghiera di noi ribelli per amore”.
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