Di Nicola Salvagnin
Tanto tuonò… che alla fine veramente arrivò la pioggia di provvedimenti annunciati dal neo-premier Renzi per rianimare economia e società italiane. Una pioggia intermittente, dato che – nel mercoledì scelto da spartiacque tra il prima e il dopo – ci sono decisioni che entrano immediatamente in vigore, altre che attendono l’esame del Parlamento, altre ancora che sono state annunciate. Ma che arriveranno, perché se ogni promessa è un debito, qui Renzi si è accollato un onere non rinviabile né schivabile in alcun modo; pena la sua personale delegittimazione.
Da subito si interviene su alcune norme del diritto del lavoro, scelte a costo zero che potrebbero fare del bene. Si dà più fiato ai contratti a termine, che non sono più obbligati a specificare la causalità degli stessi dopo il primo anno, e che perdono pure l’obbligo dei dieci giorni tra uno e l’altro. Insomma, si ritorna alla situazione pre-Fornero: la lotta alla precarizzazione cede il posto al bisogno di assunzioni. Stessa logica è applicata ai contratti di apprendistato, modificati dal ministro Fornero con modalità che nella pratica hanno dato esiti opposti a quelli desiderati: vengono poco utilizzati e dovrebbero essere lo strumento-principe di ingresso al mondo del lavoro. Ora si tolgono alcuni lacci e lacciuoli.
Altra scelta immediata (e logica): il bonus mobili da 10mila euro è sganciato dal livello di spesa per la ristrutturazione edilizia: quest’ultima può anche essere più bassa del primo. Una precisazione, più che altro, che aveva già dato il governo Letta. Invece è nuovo il cosiddetto “pacchetto casa” – c’è un po’ di enfasi nel denominare alcune scelte un tempo delimitate a capitoli di legge -: chi affitta casa a canone concordato, vedrà ridursi la tassazione sui canoni percepiti dal 15 al 10%. E si alza pure la detrazione fiscale per gli inquilini a basso reddito (900 euro per chi ne guadagna meno di 15.500). Ci sono poi novità sull’acquisto delle case popolari e sul rifinanziamento di fondi per aiutare chi è in difficoltà a pagare l’affitto o il mutuo.
Ma quel che stupisce è la decisione sulla cosiddetta cedolare secca al 10%, nel momento in cui il presidente del Consiglio dichiara di voler incrementare le imposte sulle altre rendite finanziarie (esclusi i titoli di Stato). In controtendenza insomma con l’obiettivo di abbassare le tasse sui redditi e alzare quelle sulle rendite. Ma la finalità appare nobile: c’è un’emergenza abitativa forte, c’è il fondato pericolo che l’ondata di imposte abbattutasi in questi mesi sul mattone blocchi vieppiù il mercato degli affitti.
Ecco, così entriamo nei capitoli futuri. Non giriamoci troppo attorno: tra novità ulteriori per il mercato del lavoro e sgravi alle bollette energetiche per le pmi, la vera notizia è quella di lasciare più soldi in tasca ai lavoratori dipendenti e assimilati, dal prossimo maggio. Insomma, di chiudere un po’ la forbice tra il lordo e il netto in busta paga.
Anzitutto il provvedimento non tocca i pensionati (probabilmente perché non si saprebbe come trovare una simile copertura) né i lavoratori autonomi (le cui basse dichiarazioni dei redditi sono spesso “sospette”). I beneficiati maggiori sono i lavoratori a basso reddito, quelli che hanno una busta paga netta pari o inferiore a 1.500 euro mensili. Se ne troveranno circa 80 in più nello stipendio. Meglio che un pugno in un occhio. Un beneficio che si estenderà pure ai redditi più alti, ma ovviamente in calando.
Pure le aziende avranno il loro “regalo”. Si era discusso se abbassare le tasse ai lavoratori, alle aziende o ad entrambi. Alla fine pareva vincente la scelta numero uno. Infine arriverà qualcosa pure per far calare l’Irap – l’odiata imposta sulle attività produttive – con le risorse generate appunto dall’aumento dal 20 al 26% della tassazione sulle rendite finanziarie. Non dimentichiamo che lasciare più soldi in tasca ai lavoratori è comunque un aiuto alle imprese: una mossa che ad esempio può congelare rivendicazioni salariali, in una fase di rinnovo dei contratti collettivi.
E poi nuovi corposi fondi per l’edilizia scolastica; il pagamento di altri 68 miliardi di arretrati della pubblica amministrazione; l’addio al Senato della Repubblica e al Cnel… Tante belle cose con un grande punto di domanda: da dove verranno presi tutti questi soldi? Se per alcuni provvedimenti sono già state indicate le coperture, se altri (arretrati della Pa) sono già nella contabilità del debito pubblico, il solo taglio dell’Irpef costerà 6 miliardi di euro da maggio a dicembre, e 10 nel 2015, tanto per fare due conti. Appare un po’ deboluccia l’intenzione di farne arrivare molti dalla cosiddetta spending review della spesa pubblica. Che è come dire: recuperare risorse dalla lotta all’evasione fiscale. In Italia più enunciazioni di principio, che grandi battaglie combattute e vinte. E tagliare sulla previdenza è come maneggiare una bomba senza sicura.
Sarebbe decisamente meglio specificare subito cosa e come si vuole tagliare, anche per non mettere in (ulteriore) allarme i nostri partner europei, timorosi che in Italia – come abitudine – prima si spenda e poi si cerchino le coperture alla spesa. Se abbiamo un debito pubblico da 2.100 miliardi di euro, qualche ragione ce l’avranno pure Merkel e compagni.