Di Nicola Salvagnin
È una riforma che magari non ha l’impatto sociale o mediatico che altre – in eterna lista d’attesa – hanno: dal lavoro alla giustizia, dalle pensioni alla sanità, tanto per dire. Ma forse può cambiare l’Italia quanto o più delle prime. E la cambierà in meglio, a differenza delle altre riforme che non sono buone per il semplice fatto di essere tali.
Stiamo parlando della cosiddetta Agenda digitale strutturata dal manager aziendale Francesco Caio (uno dei migliori al mondo nel campo delle telecomunicazioni) e voluta dall’ex premier Enrico Letta. A cui si può rimproverare, a livello comunicativo, di aver dato più spazio a bufale mediatiche quali gli investimenti arabi in Italia, piuttosto che a questa rivoluzione della burocrazia italiana che promette di cambiarla da cima a fondo.
Anzitutto la fatturazione digitale, che diventerà operativa da giugno. Roba da non credere che non ci sia ancora. Tutti gli acquisti di tutti gli enti pubblici (dallo Stato alla scuola) non si faranno più in modo cartaceo. Così anzitutto si saprà quali acquisti sono stati fatti – incredibile, ma anche questo sfugge allo Stato italiano -, quando, con chi, con quali importi (confrontabili), i tempi di pagamento… Insomma, ci sarà un controllo di gestione della spesa pubblica nei suoi mille rivoli, che oggi non c’è. E questo porterà nell’era digitale tutti i fornitori della Pubblica amministrazione, e a loro volta tutti i loro subfornitori.
Necessaria? Sì, in un Paese in cui ci sono dirigenti che nascondono le fatture, altri che si dimenticano di pagarle, Asl che fanno bilanci sul quadernino a quadretti…
Secondo passo: l’Anagrafe nazionale della popolazione residente. Da tante anagrafi sparpagliate sul territorio, ad un’unica che diventerà una banca dati precisa per tutti: sanità, giustizia, previdenza, fisco. Smettiamola di guardare i film americani dove in venti secondi si trova tutto di tutti: noi siamo fermi al periodo degli amanuensi medievali, e i dati viaggiano alla velocità dei piccioni, incrociandosi raramente.
Quindi l’Identità digitale, insomma un passaporto digitale unico che permetterà a tutti di accedere a tutto. Una password e via.
Lo sforzo da fare è enorme, anche se già delineato in modi e tempi. Si pensi alla mole di dati da trasferire dagli enti locali alle banche dati uniche; si pensi alle resistenze di chi – nella pubblica amministrazione – il computer lo considera uno strumento da extraterrestri, o che così perderà poteri e “influenze”. Si pensi al cambiamento che deve fare una burocrazia avvezza alla carta bollata, alla marca da bollo fisica da applicare sul “certificato” previa leccata…
Le conseguenze positive saranno enormi. Stando sul coté economico: minori costi, minor corruzione (che è un “costo”), più velocità, più servizi a valore aggiunto fornibili, meno sovrapposizioni.
Noi non ci pensiamo molto, abituati – da italiani – a vivere tra certificati e bolli, tra code allo sportello e assurdi doppioni. Ma perché un investitore straniero dovrebbe metter su fabbrica in un Paese che si ostina a rimanere nell’Ottocento, mentre i confinanti viaggiano verso il XXII secolo? Perché – come le imprese nostrane – si deve spendere più per il personale amministrativo e le consulenze fiscali, che per la produzione e la vendita?
Infatti non vengono qui. Alle aziende tedesche tocca farlo, per ragioni di mercato. Lo fanno, e impiantano a malincuore quasi tutte le loro filiali tra Bolzano e Verona. Più in là, manco morte.
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