Da Zenit di Alfonso M. Bruno
Qualche anno fa, fece scalpore l’immagine del Papa Giovanni Paolo II che scendeva il Venerdì Santo in San Pietro per confessare i fedeli. Ancor più scalpore ha fatto l’immagine del Papa Francesco che si confessa pubblicamente. Ambedue le situazioni risultano inusitate: il Pontefice non usava amministrare questo Sacramento, e quando a suo volta lo praticava, ciò avveniva nel chiuso del Palazzo Apostolico.
Era peraltro indubbio che il Papa, adempiendo ai suoi obblighi di Sacerdote, venisse confessato, ed era nota a tutti in Vaticano l’identità dell’incaricato. Perché dunque mostrarsi nell’atto di confidare i propri peccati?
Il Papa insiste molto sul tema della misericordia di Dio, ma con il suo gesto egli ha voluto sottolineare come questa misericordia debba essere invocata. Una precisazione, questa, tanto più necessaria dopo che soltanto il giorno prima Bergoglio – non a caso parlando ai politici italiani – aveva distinto tra il peccatore, che riconosce le proprie colpe davanti a Dio, ed il corrotto, il quali viceversa ha smarrito il discrimine morale tra il bene e il male.
Il gesto del Papa si riferisce dunque, al di là della propria persona, di cui egli riconosce la debolezza, condivisa con tutti gli altri uomini, da un lato alla Chiesa, e dall’altro al mondo. E’ evidente che per la Chiesa, da quando è stato scelto un nuovo Vescovo di Roma, è iniziato un tempo di rinnovamento, di riforma, qualcuno dice addirittura di rivoluzione.
Nell’accingersi ad un “new beginning”, ad intraprendere un cammino nuovo e inesplorato, è necessario avere prima pagato i debiti, liquidato le pendenze, regolato i propri conti con la coscienza e con Dio.
Il gesto di Bergoglio è dunque rivolto a ciascuno di noi: tanto più lunga e difficile risulta essere la strada che ci attende, tanto più noi dobbiamo essere preparati a percorrerla, con la preparazione necessaria, ma anche senza il peso di un bagaglio ingombrante ed imbarazzante, quale è il peccato.
E che il peccato si sia sedimentato nella Chiesa, che la barca di Pietro ne sia stata appesantita come da una inutile zavorra, ce lo aveva ricordato già Benedetto XVI, ancora Cardinale, in quella drammatica “Via Crucis” seguita per televisione dal suo predecessore ormai agonizzante, in cui aveva parlato di una sporcizia morale insita nella società dei credenti.
Ora quella barca prende il mare aperto, sotto la guida di un nuovo nocchiero, scelto per il suo coraggio, per l’abitudine ad affrontare le tempeste, ed il comandante è il primo a confessarsi con Dio prima di intraprendere il viaggio.
C’è però un altro viaggio, di cui quello della Chiesa è nello stesso tempo parte e metafora: il viaggio dell’umanità verso una teofania che costituisce la meta della storia, ma che si manifesta anche nel divenire della nostra vicenda.
Ritorna l’immagine dell’uccello marino posato sulla Cappella Sistina prima della fumata bianca, l’idea del Papa venuto attraversando il mare dalla terra posta alla fine del mondo, del pastore approdato a Roma proprio come Pietro, il pescatore della Galilea.
Dove va l’umanità nel suo viaggio? Forse questa è stata la domanda rivolta a Bergoglio da un altro uomo venuto da oltre l’Oceano, da un altro americano che condivide con il Papa tanta responsabilità e tanto prestigio nel condurre le sorti del mondo.
Da un lato, la richiesta di giustizia è tanto forte e pressante da impedire, da escludere ogni possibile indugio; e dall’altro lato la strada da percorrere per realizzarla è difficile, piena di pericoli e di insidie: una strada che può riservare delle prove, può farci affrontare dei conflitti, può mettere alla prova equilibri consolidati dalle abitudini e dalle convenzioni. E tuttavia bisogna partire, bisogna affrontare quel che il futuro ci riserva.
La confessione è il migliore viatico, e la misericordia di Dio è il migliore accompagnamento. “In te, Domine, speravi: non confundar in Aeternum”.
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