Di Daniele Rocchi
Dal 17 febbraio 2013, da quando cioè Israele concede permessi temporanei, oltre 700 feriti siriani sono arrivati negli ospedali israeliani della Galilea, la parte settentrionale del Paese, attraverso il confine con la Siria, sulle alture del Golan. Qui l’esercito israeliano ha allestito un ospedale da campo dove viene prestato un primo soccorso. I casi più gravi, quelli che non possono essere curati sul posto, vengono trasferiti nei nosocomi della Galilea. Questi ultimi hanno maturato una lunga esperienza nel trattamento di pazienti feriti in battaglia: basti pensare al conflitto dell’estate 2006 tra Israele e il gruppo integralista armato libanese Hezbollah. Un impegno umanitario molto significativo: Siria e Israele, infatti, non intrattengono relazioni diplomatiche dopo la guerra dei Sei Giorni del 1967 e dello Yom Kippur del 1973.
Cure e solidarietà. Come messo in evidenza dall’emittente cattolica Telepace Holy Land Tv, che all’argomento ha dedicato un ampio servizio, una delle strutture più attive è l’ospedale di Safed, dove dall’anno scorso sono stati ricoverati 250 siriani. Il quadro clinico che questi pazienti presentano al loro arrivo spesso è molto complicato visto che si tratta in larga parte di ferite da bombardamenti. A complicare il tutto anche il fatto che i feriti arrivano negli ospedali diversi giorni dopo essere stati colpiti e la diffidenza che molti di loro nutrono nei confronti degli israeliani, popolazione considerata nemica. Per questo motivo l’assistenza fornita dal personale ospedaliero israeliano è anche di supporto psicologico. Un divario che si cerca di superare impiegando medici e paramedici arabi israeliani che conoscono l’arabo e che con i pazienti condividono la cultura. Al Safed lavorano anche assistenti sociali per trattare i disturbi post-traumatici provocati dalla guerra. Issa Fares è preposta alle relazioni con i pazienti siriani: “Ciò che faccio – racconta all’emittente cattolica – è incontrarli da subito nell’unità di trauma per dar loro informazioni in arabo su ciò che dicono e faranno i medici dal punto di vista sanitario. Se hanno madri, padri o, in generale, parenti esterni all’ospedale, cerco di contattarli. Parlo con loro e provvedo a tutto ciò di cui hanno bisogno: scarpe, pigiami, dentifricio, shampoo, vestiti. Se subiscono amputazioni, raccolgo soldi da varie comunità per acquistare protesi e far sì che possano tornare a casa in grado di camminare”. Nell’ospedale è stato allestito anche un magazzino per stivare tutti i beni acquistati per i siriani ricoverati con fondi donati da comunità cristiane, musulmane ed ebraiche residenti in Israele.
Facciamo ciò che possiamo per salvare le vite. Secondo dati forniti dal direttore dell’ospedale di Safed, Oscar Embon, “il 15% dei feriti sono bambini sotto i 18 anni d’età. Il rapporto tra uomini e donne è di 9 a 1, perciò solo il 10% sono donne. L’età dei pazienti varia da 0 a 70 anni. Una cosa peculiare è che abbiamo accolto quattro donne incinte che hanno partorito in quest’ospedale”. Tra gli interventi principali effettuati spiccano quelli di chirurgia plastica. “Quasi tutti hanno bisogno di fare operazioni nel campo della chirurgia plastica per danni alla pelle e ai muscoli – spiega Shokrey Kassis, capo dipartimento di chirurgia plastica dello stesso nosocomio – ma ci sono anche casi gravissimi, a molti abbiamo dovuto fare l’amputazione di gambe o mani. Facciamo quello che possiamo per salvare la loro vita”. “Se ti vedi come medico, come chirurgo o specialista garantisci lo stesso trattamento per tutti – dichiara Hany Bathot, direttore dell’unità Trauma del Rambam di Haifa – aiutare dei feriti ti dà forza”.
Un augurio di pace. Al momento di dimettere i feriti, gli ospedali chiamano di nuovo l’esercito che li prende in consegna e provvede a farli tornare in Siria. Al Safed nessuno dei 250 pazienti finora trattati ha chiesto di restare. Nonostante i pericoli e la guerra in corso tutti i feriti vogliono tornare alle proprie abitazioni, presso le famiglie. “Sono molto legati alla loro terra” dicono i medici che sono concordi nel riferire che, quando lasciano l’ospedale, i pazienti siriani sono grati per l’assistenza che hanno ricevuto. Significative, a riguardo, sono le parole della madre di una ragazza siriana della regione di Daraa, portata lo scorso anno al Safed in gravissime condizioni a causa di profonde lesioni da schegge alla gamba sinistra e all’addome e salvata dai medici israeliani: “Mi auguro che venga la pace e che potremo incontrarci di nuovo in un Medio Oriente più sano”.
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