Di Francesco Rossi
È una questione di umanità. L’attuale realtà del sistema carcerario in Italia, in primo luogo a causa del sovraffollamento, compromette seriamente l’applicazione della Costituzione italiana, laddove all’articolo 27 recita che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Una riflessione s’impone di fronte ai 60.197 detenuti presenti nelle 205 carceri italiane, che avrebbero invece una “capienza regolamentare” di 48.309 unità. Né va dimenticato che il 27 maggio 2013 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dato un anno di tempo al nostro Paese (rigettando il ricorso contro una sentenza che condannava il sistema penitenziario italiano per trattamento inumano e degradante inflitto agli ospiti delle strutture carcerarie) per risolvere il problema del sovraffollamento. Manca meno di un mese, ma la soluzione non sembra dietro l’angolo. Nel frattempo, la scorsa settimana, la Corte di Strasburgo ha nuovamente condannato l’Italia a risarcire un detenuto cui sono state prestate cure mediche con ritardo e solo dopo diverse segnalazioni, ravvisando ancora una violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. E all’alba del 25 aprile (lo stesso giorno in cui 60 realtà del mondo associativo, sindacale e del volontariato carcerario hanno scritto una lettera-appello alle istituzioni) un uomo “cardiopatico sottoposto a ossigenoterapia” è morto soffocato nel carcere di Giarre: l’udienza per la sua scarcerazione, prevista a gennaio, era già stata rinviata due volte.
Superare il sistema vendicativo. “Amnistia” e “perdono” sono le parole chiave per affrontare la situazione ad avviso di Giovanni Ramonda, responsabile generale dell’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, che al Sir commenta la telefonata di Papa Francesco a Pannella (“un gesto illuminato dallo Spirito che abbraccia i tanti che compiono atti di giustizia, anche se lontani dalla Chiesa”) e il nuovo appello di Napolitano al Parlamento per “fare il punto sulle misure adottate e da adottare, anche in ossequio alla nota sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”. “Il perdono – sottolinea Ramonda – ha una sua valenza pedagogica, riabilitativa e rieducativa. A fianco dell’amnistia chiediamo quindi un perdono in grado di attivare processi di riconciliazione”. Non è buonismo, a suo avviso, né una pietra sul passato. Ramonda chiede di “superare l’attuale sistema vendicativo attraverso processi di recupero”. Il successo delle pene alternative, d’altra parte, è confermato dai numeri sulla recidiva. “La percentuale di chi sconta la pena in carcere e torna a delinquere una volta fuori è del 75%, mentre per chi beneficia di pene alternative si abbassa al 22%”. Diceva don Oreste Benzi che “l’uomo non è il suo errore”, e così “molti che hanno sbagliato, magari per la prima volta, vittime di fragilità e del coinvolgimento in ‘brutti giri’, potrebbero scontare la pena in comunità educanti, dove si sperimentano – conferma il responsabile della Papa Giovanni – percorsi formativi di solidarietà ed educazione all’altruismo”.
Il carcere sia l’ultima possibilità. Per don Virginio Balducchi, ispettore generale dei cappellani delle carceri, le recenti norme per la detenzione domiciliare e l’affidamento in prova “sono segnali positivi che vanno verso una riduzione dell’utilizzo del carcere”, ma “la situazione è ancora precaria, con molti istituti al collasso”. Tuttavia la scadenza imposta dalla Corte europea è imminente, per cui il sacerdote si associa alla richiesta di un provvedimento di clemenza “unito a modifiche serie nel modo di amministrare la giustizia, affinché il carcere sia l’ultima possibilità per scontare la pena”. Chi ha sbagliato deve rispondere “con responsabilità” del male fatto: a tal fine “è meglio un impegno sul territorio piuttosto che restare dietro le sbarre senza far nulla”. Don Balducchi mette però in guardia da un’amnistia o un indulto che si limitino a svuotare le carceri, senza prevedere alcun accompagnamento di chi esce. “La maggior parte dei detenuti – spiega – appartiene all’area dell’esclusione sociale, pertanto servono strumenti sul territorio in grado di accompagnarli e prendersi cura di loro affinché non tornino a delinquere”. Comunità di accoglienza, associazioni, cooperative che offrono loro un impiego, lavori socialmente utili: le possibilità ci sarebbero, ma “bisogna investire un po’ di risorse”. In fondo, conclude, “allontanare dalla criminalità un ex detenuto è una forma importante di prevenzione”. Le risorse così investite rappresenterebbero “il costo minore per la sicurezza” e, di sicuro, un buon investimento.