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A tu per tu con Susanna Camusso

“Lottare per il lavoro”, insieme, “non contro ma pro”. È l’invito contenuto nel messaggio diffuso dalla Commissione episcopale della Cei per i problemi sociali e il lavoro, alla vigilia del primo maggio. “Lottare per il lavoro è fondamentale”, perché il lavoro è il “grande tema” dell’Italia e dell’Europa di oggi, rilancia Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, il più grande sindacato del Paese in quanto a numero di iscritti. A lei abbiamo chiesto una “lettura laica” del messaggio, che parla di precarietà alla luce della speranza e denuncia “l’attuale situazione di aperta ingiustizia”. Sul lavoro serve una svolta, un cambio di paradigma, sostiene Camusso: non è più il tempo degli “steccati” tra cattolici e laici, serve una nuova alleanza tra “uomini e donne di buona volontà”, a partire da un confronto sull’“idea del lavoro”. Perché il contrasto tra la “ricchezza di una parte” – sempre più piccola – e le “difficoltà” di un’altra parte – sempre più ampia – della società, per la leader della Cgil non è più sostenibile, anzi rischia di diventare “esplosiva”.

La Cei, nel messaggio, lancia un forte invito a “lottare per il lavoro”, e a fare del primo maggio una giornata di lotta “non contro, ma pro”. Come valuta il segretario del più grande sindacato italiano questa prospettiva? 
“Lottare per il lavoro è fondamentale. È il riconoscimento che il lavoro è il grande tema dell’Italia di oggi, dell’Europa di oggi. La mancanza di lavoro è un vero dramma, per chi l’ha perso e non lo trova più, per i giovani che non riescono a trovarlo, a causa di una disoccupazione con numeri che fanno paura. Per questo è necessario che tutti mobilitino le proprie energie, e che ci sia una lotta ‘per’ il lavoro e non ‘contro’ di esso. Nella prospettiva indicata nel messaggio per il primo maggio c’è, dunque, un’indicazione chiara riguardo al lavoro come il grande tema del Paese e sulle risposte da dare. Certo, poi bisogna tradurre tutto questo nella pratica”.

A proposito di indicazioni pratiche: i vescovi italiani, sull’esempio di Papa Francesco, individuano nella “empatia” con i lavoratori uno degli atteggiamenti di fondo da assumere. 
“Da laica, sento e riconosco l’identità e la libertà del lavoro: una persona non può progettare se stessa se non ha il lavoro come riferimento, come certezza. Penso ai giovani e ai ragazzi che vivono in condizioni precarie e che dicono che la precarietà è un impedimento per il futuro, ai tanti giovani che restano in famiglia o che ritornano in famiglia, perché il lavoro non consente loro di mantenersi in maniera autonoma. Intanto, la forbice tra coloro che guadagnano moltissimo e coloro che il lavoro non ce l’hanno o non ne hanno uno degno di questo nome si allarga sempre di più. Per questo credo sia giunto il momento di fare sacrifici: bisogna porre un limite alla redditività, al profitto, servono politiche di ridistribuzione più ampie. Non possono coesistere i grandi arricchimenti con l’estrema povertà: occorre che si utilizzi la ricchezza per creare lavoro, sia da parte dello Stato sia da parte delle imprese”.

Bisogna quindi ridare centralità al verbo “intraprendere”, come suggeriscono i vescovi? 
“Il verbo intraprendere incorpora in sé un’idea di limite: non si può pretendere soltanto di aumentare la redditività, bisogna anche incentivare il versante della cooperazione. Ognuno di noi ha un pezzo di responsabilità, ma è più responsabile chi può mettere più risorse a disposizione, invece di chi si trova in estrema difficoltà e ha risorse a stento per se stesso. Papa Francesco, a Cagliari, ha parlato di ‘dignità’ del lavoro: è una parola per noi usuale, ma che diventa dirompente, perché non è altrettanto usuale nel linguaggio comune. ‘Intraprendere’, in questa prospettiva, significa investire per il bene comune, investire risorse a beneficio della comunità invece che a beneficio del singolo”.

Tradotto in altri termini, comporta la capacità di dire no alla “idolatria del denaro”, che “esclude e non include”, come si legge nel messaggio. 

“Qui torniamo al tema dei limiti, che sia la politica che la grande finanza dovrebbero porsi, quando si arriva addirittura all’ostentazione della ricchezza rispetto alle difficoltà di chi ha bisogno di lavoro. Se siamo disposti, reciprocamente, a darci dei limiti, a porre un tetto alle spese, a stabilire una dimensione per l’erogazione delle risorse, si può riuscire a invertire la tendenza: se, invece, il sistema delle imprese vuole la stessa redditività sia dagli investimenti industriali che dai derivati finanziari non ce la faremo mai. L’economia di carta non esiste: quando si falsano i termini dell’economia reale, resta solo l’illusione del guadagno e della crescita perenne. Quando il sistema delle imprese continua a pensare che si può tornare all’antico, scarica sui più deboli nel mercato del lavoro tutti i costi del cambiamento prodotto da sei anni di crisi, dalle perdite, dal debito europeo… In questo modo la precarietà diventa un idolo, che si può contrastare solo con serie politiche di redistribuzione del reddito”.

Cosa risponde a chi accusa i sindacati di rappresentare un mondo “vecchio”, non più in grado di rappresentare adeguatamente il lavoro che cambia? 

“Il lavoro, lo ribadisco, ha a che fare con l’identità della persona e la sua dignità: oggi ci sono contrapposizioni, disuguaglianze, forme di esclusione, di schiavitù, di sfruttamento e di precarietà. La società così non funziona: ci vogliono giustizia e appartenenza collettiva. C’è bisogno degli organismi sindacali ancora oggi, proprio per rendersi conto della dimensione collettiva del lavoro. Perché è collettivamente che si cambia. Poi, naturalmente, si fanno anche degli errori, che si possono correggere”.