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“Figli dei Beatles i nostri preti non del Gregoriano”

Di M. M. Nicolais

I nostri preti? “Sono figli dei Beatles, e non del Canto gregoriano”. Comincia con una battuta, all’insegna del realismo, monsignor Vincenzo De Gregorio, consulente di musica liturgica presso l’Ufficio liturgico nazionale della Cei e preside del Pontificio Istituto di musica sacra, per illustrarci il “clima” che fa da sfondo al sesto convegno nazionale di Musica per la liturgia, in programma il 7 e l’8 maggio, a Salerno, sul tema “Canto e musica nella Chiesa italiana negli anni della riforma liturgica”. Parola d’ordine: “Formazione”, come ci spiegano anche due tra i relatori del convegno. Perché il “musicista di Chiesa” non si può improvvisare, deve poter disporre di una “cassetta degli attrezzi” adeguata. Come quella che, da ormai vent’anni, garantisce l’Ufficio liturgico della Cei con il Coperlim (Corso di formazione liturgico-musicale), che oggi può vantare anche un importante appendice nell’“e-learning”: i corsi a distanza, infatti, registrano un successo sempre crescente, attestato dai 400 iscritti solo per quest’anno. Dal 2009, inoltre – lo stesso anno della pubblicazione del nuovo Repertorio nazionale di canti per la liturgia – è stato attivato un corso di diploma biennale in formazione e direzione di coro a indirizzo liturgico “Giovanni Maria Rossi”.

Prima la formazione. “La Chiesa non ha mai negato, ma anzi ha sempre accolto lo stile e il linguaggio artistico e musicale, in specie quello liturgico”, ricorda mons. De Gregorio evidenziando che 50 anni fa, all’epoca della riforma attuata attraverso la “Sacrosanctum Concilium”, ci si è trovati “di fronte a 1.500 anni di storia della Chiesa con un patrimonio ben sedimentato, in latino, e si è dovuto creare un repertorio musicale ‘ex novo’, in italiano, grazie all’impegno di tutti i musicisti che hanno operato e operano nella Chiesa”, da almeno due generazioni. Opera non facile, “in un Paese come l’Italia dove la gente è abituata a cantare al di là della Chiesa, e dove la partecipazione al rito è stata sempre molto viva”. In questo mezzo secolo, insigni musicisti per la liturgia – un nome per tutti, Domenico Bartolucci – hanno dato “un contributo notevolissimo e di altissimo profilo”, soprattutto curando i testi per la liturgia. Accanto a questi “elementi di grande dignità e pertinenza”, tuttavia, in questi decenni “nella esasperata ricerca della melodia facile o alla moda, si sono introdotti anche canti e melodie che non avevano niente a che fare con la liturgia, creando sconcerto e confusione”. Per mons. De Gregorio, questo è un periodo che ci siamo ormai lasciati alle spalle, ma resta il problema che in Italia “non abbiamo molti operatori musicali sul territorio”, nonostante “l’enorme sforzo” fatto dall’Ufficio liturgico della Cei. Ecco perché è necessario investire ulteriormente in formazione. Come? “Partendo da una buona formazione tecnico-musicale”, suggerisce mons. De Gregorio citando l’esperienza del Pontificio Istituto di musica sacra, nato nel 1911 per i seminaristi presenti a Roma e frequentato oggi, 103 anni dopo, da 144 studenti provenienti da 32 Paesi del mondo. Dopo aver insegnato agli studenti il “codice musicale”, si tratta di “metterlo al servizio di una lingua”.

Musicisti “alfabetizzati” anche in chiesa.
 “Una liturgia senza canti è come una giornata senza sole”. Monsignor Antonio Parisi, incaricato per la musica liturgica della diocesi di Bari-Bitonto e già consulente dell’Ufficio liturgico nazionale, prende a prestito una frase di monsignor Mariano Magrassi, per ripercorrere la genesi del Repertorio nazionale di canti per la liturgia, pubblicato nel 2009: 384, selezionati tra 15mila, che costituiscono un “corpus” dei canti “da tutti conosciuti ed eseguiti”. Il Repertorio è composto da un libro per i fedeli – che per la prima volta contiene il rigo musicale della melodia e i testi completi – un libro per l’organista, comprendente tutti i canti con l’accompagnamento organistico, e un cd-rom con l’audio in Mp3 di tutti canti. “Il Repertorio – precisa l’esperto – non è la soluzione di tutti i problemi celebrativi e musicali all’interno della celebrazione: senza formazione spirituale, liturgica, musicale, pastorale, anche il repertorio più perfetto servirebbe a ben poco, perché rimarrebbe chiuso e inutilizzato negli scaffali”. A mettere l’accento sulla formazione come tasto dolente è anche il maestro Marco Berrini, del Conservatorio di musica “A. Vivaldi” di Alessandria, che denuncia: “Non esiste oggi in Italia una vera scuola per direttori di coro, e probabilmente non è mai esistita”. Nel nostro Paese, infatti, “la formazione musicale ha da sempre avuto una prevalente impostazione strumentale e non si è mai presa cura dell’organizzazione, o della riorganizzazione, delle scuole di direzione corale, a cominciare dai Conservatori di Stato, che dovrebbero essere la più alta espressione della formazione musicale”. Di qui la proposta di “un percorso di alfabetizzazione musicale di base”, che l’Ufficio liturgico nazionale potrebbe realizzare in collaborazione con i Conservatori, superando anche nelle nostre parrocchie l’idea, diffusa in Italia, che la musica debba essere “arte per pochi”. Non tanto “un coro ogni parrocchia”, parafrasando il motto di qualche anno fa del ministro Berlinguer, ma “cantori alfabetizzati in ogni coro parrocchiale”. Perché spesso si dice: “Agli occhi di Dio” è la buona volontà che conta. “Peccato che nessuno si sia mai posto la domanda di che cosa possa invece contare agli orecchi di Dio!”, chiosa il maestro.

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