Come stiamo uscendo dalla crisi che ha squassato l’economia italiana negli ultimi sette anni? Uscendo all’esterno, e lasciando entrare. Fiat è la punta di diamante della prima tendenza: lasciando perdere una storica propensione a campare grazie agli aiutini di Stato, con Marchionne l’azienda automobilistica torinese ha allargato sia la propria stazza (con la fortunatissima acquisizione di Chrysler) sia i propri mercati grazie anche a una gamma di prodotti ben più ampia delle solite utilitarie. Pagherà un prezzo – la testa si sposterà progressivamente a Detroit – ma sta salvando gli stabilimenti italiani, valorizzando marchi come Maserati e rilanciando ora pure la derelitta Alfa Romeo. Dietro di lei, una miriade di aziende della moda, del lusso, dell’agroalimentare, della meccanica di precisione e quant’altro, che hanno preso d’assalto ogni mercato del mondo per vendere i propri prodotti: è l’export che sta salvando la nostra economia. Per competere a livello globale, dobbiamo innovare prodotti e lavorazioni, allargare il marketing, conoscere i mercati, allargare le spalle per affrontare il mondo. Tanto sano “allenamento” che ci permetterà di essere un’economia valida e competitiva anche nel post-globalizzazione, fenomeno che sta spegnendo la vecchia manifattura italiana ormai sempre più dislocata laddove il lavoro costa meno.
Ma la crisi ha anche costretto molte aziende a lasciar entrare capitali stranieri nel loro azionariato. Comprando marchi prossimi al fallimento (vedi il caso eclatante di Alitalia, o quello meno recente di Parmalat) o portando capitali freschi laddove quelli nostrani erano ormai stremati o riluttanti: vedi l’arrivo di fondi d’investimento americani o arabi nelle banche, nelle assicurazioni, nelle comunicazioni, nelle catene alberghiere, nelle maison della moda. Rompendo due vecchie logiche italiche: quella del “salotto buono” che intrecciava (pochi) soldi dei soliti noti in azionariati quanto mai confusi e riluttanti agli investimenti; quella dell’ultima istanza chiamata Stato. Se va male, ci si rivolge a lui. Privatizzare gli utili, socializzare le perdite.
Nessun pasto è gratis, dicono gli inglesi. Un conto, comunque, alla fine si paga. Le aziende che escono, rischiano di perdere velocemente le radici italiane. Se si ragiona a livello globale, gli interessi (e le beghe) tricolori non hanno più l’importanza di prima. Così come il mescolamento dei capitali fa sì che le decisioni importanti non si prendano più nel salottino milanese o romano, ma magari a Londra, New York, Abu Dhabi.
Ultimo ma non meno importante: perde peso “l’interesse nazionale”: non è sciovinismo alla francese, ma un fenomeno che interessa l’intera economia globalizzata. Sanzioni alla Russia di Putin? Non scherziamo, i suoi ricchi connazionali hanno importanti investimenti ovunque in Occidente. Se poi pensiamo ai cinesi…
Insomma non è né un bene né un male: è così. Queste sono le regole del nuovo gioco mondiale, dove gli attori principali non sono i soliti sette-otto Paesi occidentali. Possono piacere o meno (l’ex ministro Giulio Tremonti si sta sgolando per far capire quanto questo gioco sia pericoloso per gli Stati nazionali), ma gli asfittici mercati interni, le piccole dimensioni, l’autarchia nazionale, la politica che sovrintende e s’intromette sono ormai asset al tramonto ovunque.
E l’Italia si trova ora nel guado: se fa crescere i propri “campioni” nazionali, giocherà ancora in serie A. Se perderà i nuovi treni, si troverà nella B delle nuove colonie economiche, con scarsissime possibilità di promozione. In una parola: declino.
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