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Nell’era del “touch” il sacerdote in classe è narrazione pura

Di Mario Da Ros

“Dove sei?” è forse una delle domande più frequenti che un sacerdote impegnato nella scuola si sente rivolgere dai cristiani della propria parrocchia. Una domanda, che potrebbe essere avvertita quasi come un rimprovero, ma che rivela molto più il segno di una relazione radicata nelle nostre comunità e provocata da una discontinuità inattesa.

Il tempo e la dedizione pastorale del sacerdote è sempre a servizio di tutta la Chiesa, ma quando questo si realizza anche in ambienti non comuni alla storia recente dei nostri paesi, ecco il disappunto, lo sconcerto, la sorpresa e talvolta la fatica a comprendere.
Papa Francesco ci chiede di non rimanere “pettinatori di pecore”, ma di essere sempre più “pescatori”, di non aver paura d’essere anche Chiesa “incidentata”, perché osa frequentare strade diverse. I pochi sacerdoti impegnati oggi nella scuola statale o nella scuola in genere possono a buona ragione essere annoverati tra i pescatori inviati a tessere reti non scontate e non sempre così evidenti.
Dai corridoi alle aule scolastiche, dagli spazi di ricreazione ai collegi docenti, dalle lezioni ai dialoghi in chat con alunni e colleghi docenti, il mare nel quale un sacerdote docente di religione si trova a navigare è assai vasto e popolato.

La maggioranza dei giovani che incontra nelle classi della scuola secondaria di secondo grado non frequenta più abitualmente i luoghi del sacro, siano essi la chiesa o l’oratorio. Qualcuno ancora per un po’ si ripresenta al Grest, ma sono i protagonisti di un inesorabile congedo dai noti spazi religiosi, quelli che un docente di religione, sacerdote o laico, si trova nell’ora settimanale di Irc (insegnamento della religione cattolica).
È certamente una sfida dagli sviluppi mai prevedibili, quella di far ritrovare le coordinate culturali e sociali della dimensione spirituale dell’uomo alla fascia giovanile della popolazione presente a scuola. Non si tratta di fare catechesi, ma di una ricerca di senso, di un pellegrinaggio attraverso le domande e le testimonianze, l’eredità e le provocazioni di comunità cristiane oggi in seria difficoltà nel custodire e nell’accompagnare le giovani generazioni a vivere in modo personale la propria libera vicenda religiosa.
Nella nostra diocesi di Treviso possiamo ancora godere di una ricca e partecipata esperienza di cammini associativi e di legami piuttosto forti tra popolazione e Chiesa cattolica, ma constatiamo particolarmente la domenica la grande assenza di quelle età cariche di attese e quotidianamente attive nell’economia e nei vari ambiti della produzione lavorativa e culturale, che sono i giovani e gli adulti.

Mentre bambini, ragazzi e anziani sono ben visibili in riferimento a percorsi di catechesi e tempi di preghiera propri, la fascia attiva della popolazione, quella che prepara e alimenta i cambiamenti, le scelte e lo spirito del tempo, è altrove e annovera il religioso tra gli aspetti non fondamentali e non strettamente comunitari del vivere.
Un sacerdote a scuola è memoria di una tradizione e insieme occhi spalancati sulle anche più piccole scintille di speranza. Ricorda il dono della fede o almeno la storia di un insegnamento di cui spesso la nostra famiglia ci ha fatto eredi, accende una possibile domanda di senso, che non sia semplice verifica di un’idea, ma effettivo cammino di ricerca personale e condivisa. A centinaia di giovani per i quali Eucaristia e Riconciliazione sono diventate parole lontane, Vocazione e Spiritualità dimensioni intime e senza interferenze con legami comunitari forti, la presenza di un sacerdote tra i banchi di scuola rinnova la possibilità di una riscoperta diretta e graduale di un’esperienza sempre attesa dal cuore umano: la fede.
Nella scuola il sacerdote non compie una liturgia, non predica, non amministra i sacramenti, ma ne è memoria personale e viva, ne è narrazione presente e tangibile. Nell’era del “touch”, del toccare per vedere e dunque credere, la presenza fisica di un sacerdote tra docenti e studenti, anche senza agire alla maniera del presbitero, rimette in contatto battezzati e non con la Chiesa del Risorto, che non è solamente fatto storico e illustrazione in vario modo stampata sui libri, ma vissuto contemporaneo all’uomo e alla donna di oggi. Il sacerdote a scuola è un vaccino contro quel virus, che vorrebbe fare dello spirituale, e del cristianesimo in particolare, un oggetto da museo.
Per il sacerdote trovarsi tra fratelli e sorelle laici, docenti e studenti, è anche un banco di prova per la propria fede e il ministero, ora sempre più sfidato a farsi vicinanza e ascolto, prossimità solidale e solida per un’umanità la cui libertà invoca paternità e gioia. Non sarà soddisfazione e leaderismo, ma rischio e affiancamento, non gratificazione e seguito, ma simpatia e fatica, il percorso da una classe all’altra, da un colloquio con i genitori ad una uscita didattica…
“Dove sei?”, a questa non banale questione il sacerdote che insegna a scuola potrà rispondere: “Dove il Signore mi ha inviato perché l’uomo non dimentichi e la sua ricerca non tralasci il Volto che l’ama e continuerà ad amarlo ovunque egli andrà”. Forse a questo punto sarà proprio quella catechista o quell’anziano o l’animatore a dirgli: “Vai don, perché non ci siamo solo noi!” con un sorriso di complicità e un cuore carico di preghiera per una missione speciale, ma non altra da quella che egli vive in oratorio o nella liturgia.

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