Di Maria Chiara Biagioni
Un vero e proprio plebiscito, scontato e annunciato: il referendum indipendentista organizzato nelle regioni russofone dell’Ucraina ha portato a una larghissima maggioranza di “sì” alla secessione. Secondo i dati diffusi dal Comitato elettorale allestito dai militanti separatisti, a Donetsk ha votato a favore l’89,7%, il 10,9% è contrario, uno 0,74% delle schede è risultato nullo. Nel distretto di Lugansk, secondo le agenzie russe il sì ha ottenuto addirittura il 95,98% dei voti, con un’affluenza dell’81%. L’ufficializzazione dei risultati elettorali prevista nella mattinata di lunedì è però slittata a causa della “situazione molto tesa nella regione”. Il referendum infatti si è svolto in un clima estremamente pesante tra le barricate dei secessionisti filorussi e l’operazione “antiterroristica” avviata da Kiev in questa regione. Solo pochi giorni fa, per esempio, un sacerdote ortodosso, padre Pavlo Zhuchenko, è stato ucciso dai militanti pro-russi ad un checkpoint in Konstantinovka (vicino a Donetsk) mentre cercava di convincerli a fermare le loro attività. L’uccisione del sacerdote è stata confermata dall’ufficio stampa dell’Eparchia di Horlivka e Slovyansk della Chiesa ortodossa legata al Patriarcato di Mosca.
Dopo la Crimea. Dunque, anche le regioni a Est di Kiev scelgono la strada della secessione. Per l’Occidente però il referendum è “illegale”: lo ha ribadito subito subito dopo la chiusura dei seggi anche la portavoce del capo della diplomazia europea Catherine Ashton. Il presidente francese François Hollande lo ha bollato come “nullo e non valido”, mentre gli Usa lo hanno condannato fin dalla vigilia con parole durissime. Il ministero degli Esteri ucraino lo ha addirittura definito una “farsa criminale ispirata, organizzata e finanziata dal Cremlino”. La Russia invece dichiara di rispettare gli esiti dei referendum e chiede al governo di Kiev di avviare un dialogo con i separatisti filorussi. Sullo sfondo, serpeggiano i timori che la Russia in realtà lo possa utilizzare come pretesto per avviare simili processi secessionisti in altre regioni come l’Ossezia del sud, l’Abkazia in Georgia e la Transinistria in Moldova.
“Non è legale. Non è legittimo”, dice da Kiev Igor Koeut, politologo e direttore di una scuola di formazione socio-politica. “Innanzitutto perché – spiega – la Costituzione dell’Ucraina non prevede nessun tipo di referendum locale su questioni inerenti alle autonomie delle Regioni che dovrebbero invece essere affrontate solo su base nazionale. Tra l’altro l’Ucraina non ha in questo momento un presidente legittimo ma un presidente ad interim e, pertanto, il Parlamento stesso (Rada) non può e non è legittimato a indire un simile referendum”. Il politologo delinea a questo punto alcuni scenari che si possono aprire: il primo parte dalla considerazione di quanto già accaduto in Crimea e che quindi il referendum sia “frutto” di una strategia avviata con la chiara intenzione di “chiedere a Putin di accettare la regione del Donbass come parte delle Federazione russa”. L’altro scenario è quello di una strada verso la piena indipendenza della Regione sia da Kiev sia dalla Russia. Ma a questo punto il politologo si chiede se e quanto la Regione di Donetsk sia in grado di sostenere la propria autonomia a livello economico ma soprattutto sociale. “Non hanno le risorse necessarie”, dice Kouet. Il politologo conferma inoltre i dubbi sulla legittimità stessa del referendum: “Abbiamo visto in televisione persone che sono andate a votare esibendo i documenti dell’intera famiglia”.
“Sarei cauto a fare delle analogie con la Crimea”, dice invece dall’Italia Adriano Roccucci, docente di storia contemporanea ed esperto di storia russa. “La situazione è diversa. Non credo neanche che il disegno del Cremlino sia lo stesso perché la regione del Donbass ha una conformazione diversa da quella della Crimea e una rilevanza strategica differente. Non credo poi che sia tutto eterodiretto da Mosca. Certamente può aver avuto un ruolo nell’innescare il processo, però ci sono logiche locali che sono intervenute in maniera anche molto forte. Ci sono nella regione orientale del Paese una situazione sociale problematica e un sentimento di ostilità verso Kiev molto diffuso. Non dimentichiamoci poi che nella regione operano le stesse reti di potere che sostenevano l’ex presidente Yanukovich e che questa regione era la sua roccaforte”. Secondo l’analista italiano l’unico scenario possibile “se non c’è un’ulteriore deriva”, è quello di “arrivare ad una tavola rotonda che ridisegni le ragioni dello stare insieme degli ucraini. E a questa tavola rotonda, la regione orientale del Paese vuole partecipare come un interlocutore importante e come tale seriamente preso in considerazione da Kiev”. Occhi puntati poi sulle elezioni presidenziali del 25 maggio: “Si tratta – avverte lo storico italiano – di un passaggio cruciale di riconfigurazione di uno scenario che può mettere un punto fermo, un perno attorno al quale costruire il futuro del Paese e, in questo senso, le dichiarazioni di Putin della settimana scorsa vanno nella medesima direzione manifestando un’apertura importante”.